L’aggiunta di ivabradina alla terapia standard nel complesso non ha mostrato benfici sugli eventi cardiovascolari nello studio SIGNIFY, un trial che ha coinvolto oltre 19 000 pazienti con coronaropatia stabile.

Lo studio, randomizzato. In doppio cieco e controllato con placebo, è appena stato presentato a Barcellona, al congresso della European Society of Cardiology (Esc), dove ha fatto parecchio rumore, e pubblicato in contemporanea sul New England Journal of Medicine.

Il trattamento con il farmaco è risultato associato, in media, a un calo di 10 bpm della frequenza cardiaca rispetto al placebo, dopo 3 mesi di terapia. Tuttavia, su una media di quasi 28 mesi, l’incidenza dei decessi per cause cardiovascolari e dell’infarto miocardico non fatale (endopoint primario combinato dello studio) è risultata pari al 6,8% nei pazienti trattati con ivabradina e 6,4% nei controlli, senza alcuna differenza significativa tra i due gruppi (P = 0,20) ma numericamente sfavorevole a ivabradina.

"Dato che l'effetto cardiovascolare principale di ivabradina è abbassare la frequenza cardiaca, questi risultati suggeriscono che un'elevata frequenza cardiaca è solo un marker di rischio, ma non è un fattore determinante modificabile degli outcome nei pazienti con malattia coronarica stabile senza un’insufficienza cardiaca clinica" concludono gli autori, guidati da Kim Fox, dell’Imperial College e Royal Brompton Hospital di Londra.

Da notare, tuutavia, che l’analisi sui sottogruppi ha mostrato come il trattamento con ivabradina abbia portato ad outcome significativamente peggiori in coloro che già al basale presentavano un’angina tale da limitare le attività (di classe 2 secondo la Canadian Cardiovascular Society, CCS), un sottogruppo che rappresentava il 63,1% del campione.

Secondo Magnus Ohman e Karen Alexander, della Duke University di Durham, che firmano l’editoriale di commento questo è il "risultato più sorprendente" del trial". Anche se questi pazienti rappresentano un sottogruppo all’interno di uno studio che ha dato un esito nel complesso neutro, osservano i due esperti, si tratta pur sempre di un gruppo di più di 12.000 pazienti, per i quali la terapia è approvata e ampiamente in uso al di fuori degli Stati Uniti.

Ivrabadina, che è commercializzata da Servier con i marchi Corlentor e Procoralan, è infatti attualmente disponibile in Europa e in altri Paesi, dove è utilizzata per il trattamento dello scompenso cardiaco e dell’angina stabile. Negli Usa, invece, non è disponibile, anche se Amgen la sta sviluppando per un’indicazione nello scompenso cardiaco.

Nel maggio scorso, tuttavia, l’Agenzia europea per i medicinali (Ema) ha annunciato di voler riesaminare lo status di approvazione di ivabradina, proprio sulla base dei risultati controversi dello studio SIGNIFY, che suggeriscono la presenza di un possibile rischio nei pazienti con angina più grave.

E proprio la review dell’Ema è stata alla base della decisione dell’Esc di non includere lo studio SIGNIFY in una conferenza stampa tenuta prima della presentazione ufficiale del trial, nella quale si è parlato di tutti gli altri studi in programma nella stessa sessione di SIGNIFY.

L’Esc, dal canto suo, ha fatto sapere che sono stati gli autori dello studio a informare la società scientifica dell’impossibilità di inserirlo nel programma ufficiale delle presentazioni riservate alla stampa mentre la revisione dell’Ema è ancora in corso, e l’Esc ha agito di conseguenza.

Lo studio ha coinvolto 19.102 pazienti con CAD stabile senza insufficienza cardiaca e con una frequenza cardiaca di almeno 70 bpm, trattati in rapporto 1:1 con placebo o ibravadina (in aggiunta alla terapia standard) a un dosaggio che poteva arrivare fino a 10 mg due volte al giorno, aggiustato in modo da raggiungere una frequenza cardiaca di 55-60 bpm. Alla fine, il dosaggio medio di ivabradina è stato di 8,2 mg due volte al giorno. Da notare che la dose massima approvata in Europa è più bassa, e pari a 7,5 mg due volte al giorno.

I betabloccanti venivano somministrati come indicato dalle linee guida a dosaggi stabiliti per ciascun paziente prima della randomizzazione in base alla tollerabilità ed erano assunti dall’83% del campione.

Quasi i tre quarti dei partecipanti avevano già avuto un infarto miocardico, due terzi erano stati sottoposti ad angioplastica o by-pass e il 63,1% aveva un’angina almeno di classe 2 CCS, mentre la frazione di eiezione ventricolare sinistra media era del 56,4%.

Per poter partecipare allo studio, i pazienti dovevano essere in ritmo sinusale con una frequenza cardiaca di almeno 70 bpm e avere almeno un altro fattore di rischio importante di coronaropatia (come angina di classe CCS >2 o aver subito un recente ricovero per un evento coronarico) o due fattori di rischio minori (per esempio bassi livelli di colesterolo HDL, abitudine al fumo o un età inferiore a 70 anni).

Dopo una mediana di 27,8 mesi, l' hazard ratio di decesso per cause cardiovascolari o infarto del miocardio è risultato pari a 1,08 (IC al 95% 0,96-1,20) per i pazienti del gruppo ivabradina rispetto ai controlli.

Non si sono viste differenze significative tra farmaco e placebo neanche in nessuno degli altri outcome di interesse, anche se si è osservata una tendenza verso una maggiore frequenza dei ricoveri dovuto allo scompenso cardiaco nel gruppo trattato col farmaco (2,3% contro 1,9%; P = 0,07).

Sul fronte degli eventi avversi, l’incidenza della bradicardia è stata significativamente più alta nel gruppo trattato col farmaco rispetto al gruppo di controllo (18,0% contro 2,3%; P < 0,001). Inoltre, i pazienti che hanno interrotto la terapia per via di un evento avverso sono risultati il 13,2% nel gruppo ivabradina contro 7,4% nel gruppo placebo, principalmente a causa della bradicardia.

Nel sottogruppo di pazienti in classe CCS ≥ 2, l’incidenza dell’endpoint primario è stata del 7,6% tra i pazienti trattati con ivabradina contro 6,5% tra quelli assegnati al placebo (HR 1,18; IC al 95% 1,03-1,35; P = 0,02), mentre non si è vista una differenza così significativa nei sottogruppi che al basale avevano un’angina in classe CCS 1 o erano del tutto asintomatici.

La frequenza cardiaca, una storia di infarto miocardico o di rivascolarizzazione o il fatto di assumere o meno beta-bloccanti non hanno mostrato, invece, di incidere in modo significativo sugli outcome.

"Bisogna essere molto cauti nell'interpretare i risultati dei sottogruppi" scrivono Ohman e Alexander nel loro editoriale. "Il prossimo passo naturale sarebbe quello di fare un secondo studio... per vedere se occorre davvero prestare attenzione a questo sottogruppo di pazienti anginosi".

Per ora, dicono i due commentatori "la nostra raccomandazione è di essere cauti nei soggetti con forme più gravi di angina e di prendere in considerazione l’aggiustamento del dosaggio dei betabloccanti a livelli efficaci prima di iniziare ivabradina".

Alessandra Terzaghi


K. Fox, et al. Ivabradine in stable coronary artery disease without clinical heart failure. N Engl J Med 2014; DOI:10.156/NEJMoa1406430.
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