«La stragrande maggioranza dei pazienti con tumore della prostata non è destinata a morire per questa malattia. Il tumore della prostrata non è un big killer come lo è ad esempio quello del polmone. – spiega Alfredo Berruti, Professore associato di Oncologia Medica all’Università degli Studi di Brescia, Azienda Ospedaliera “Spedali Civili”  -Esistono però pazienti che vanno incontro a malattia metastatica e in questi casi il rischio di avere complicanze e anche di morire per la malattia è più rilevante».

Per questi pazienti oggi esiste una nuova possibilità di cura: l’Aifa ha recentemente dato il via libera a enzalutamide, farmaco messo a punto da Astellas Pharma, indicato per i pazienti affetti da carcinoma della prostata avanzato resistente alla castrazione dopo fallimento della chemioterapia.

A somministrazione orale, il farmaco è dispensato dal Servizio sanitario, in fascia “H”, dietro ricetta non rinnovabile dei Centri ospedalieri o degli specialisti.

«L’obiettivo della terapia medica del tumore della prostata è colpire il “motore” del tumore che si chiama recettore per gli androgeni (RA). – conferma  Berruti - La “benzina “ è costituita dal testosterone e dagli androgeni, le strategie di cure tendono a ridurre  i valori di testosterone circolante e quasi ad azzerarli. Oggi si punta ad aggredire direttamente il motore della malattia, cioè il RA. Enzalutamide fa proprio questo. ».

Il tumore della prostata è una patologia peculiare dell’età avanzata, al punto da essere considerato l’orologio biologico “cattivo” del processo d’invecchiamento. La fascia d’età maggiormente colpita è quella over 70, ma nell’ultimo decennio sono in aumento i casi registrati tra i 60 e i 70 anni; complessivamente ogni anno in Italia le nuove diagnosi sono circa 42.000 con 8.000 decessi.

Oggi grazie ai trattamenti chirurgici e farmacologici, la sopravvivenza dei pazienti è di circa l’88% a 5 anni dalla diagnosi. Ma oltre il 40% degli uomini colpiti da un cancro prostatico sviluppa metastasi e di questi un numero elevato diventa resistente alla castrazione, ossia al trattamento di deprivazione androgenica.

«Circa il 10-20% dei casi viene diagnosticato nella fase già avanzata: questo dipende in parte dalla natura del tumore, le cui alterazioni, nella parte più esterna della ghiandola prostatica, non danno segni della patologia se non quando il tumore è molto cresciuto, in parte dalla carenza di indagini diagnostiche – afferma Paolo Marchetti, Professore ordinario di Oncologia alla Sapienza Università di Roma e Direttore dell’U.O.C. di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliera Sant’Andrea di Roma – anche nel trattamento della forma metastatica resistente alla castrazione si stanno però aprendo nuove prospettive terapeutiche basate su farmaci non solo chemioterapici e che rispettano, anche e soprattutto, la qualità di vita dei pazienti».

Il trattamento del tumore prostatico comprende diverse opzioni, quali la chirurgia, la radioterapia, l’ablazione focale, l’ormonoterapia e la chemioterapia. Il tipo di terapia dipende dalle caratteristiche del paziente e dal grado di aggressività della malattia stessa.

«Nel caso di pazienti affetti da malattia più aggressiva e metastatica alla diagnosi, le opzioni terapeutiche comprendono trattamenti sistemici quali la chemioterapia e la terapia ormonale, e l’utilizzo di nuovi farmaci antiandrogeni – afferma Francesco Montorsi, Professore ordinario di Urologia presso l’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano – la terapia ormonale, uno dei cardini del trattamento farmacologico del tumore della prostata, fa leva sul ruolo che gli androgeni, in particolare il testosterone, giocano nella crescita, lo sviluppo e la proliferazione del tumore prostatico». 

Enzalutamide rappresenta un passo in avanti nel trattamento del carcinoma prostatico metastatico resistente alla chemioterapia perché blocca in maniera potente e duratura nel tempo il recettore degli androgeni. A differenza di altre terapie farmacologiche antiandrogene, che riducono ma non azzerano i livelli circolanti di testosterone, enzalutamide si lega in maniera potente e prolungata al recettore degli androgeni, ripristinando un controllo sulla cellula tumorale prostatica e inducendone in alcuni casi la morte.

«Rispetto ai farmaci  antiandrogeni già in commercio da molti anni, enzalutamide ha un’attività molto superiore. – spiega ancora Berruti - Enzalutamide non solo colpisce il RA, ma fa molto di più. Il meccanismo con cui il ricettore per gli androgeni stimola la cellula tumorale e ne favorisce la crescita e l’immortalità è legato al fatto che il recettore legato all’ormone deve migrare dal citoplasma al nucleo che è il cervello della cellula. Enzalutamide blocca anche questo trasferimento. Quindi il blocco è decisamente più completo.»

Quali sono i pazienti che oggi beneficiano di enzalutamide? Sono i pazienti più gravi, quelli con malattia più severa che sono andati in progressione nonostante la terapia ormonale (castrazione chirurgica in passato e oggi di tipo chimico) e che dopo hanno ricevuto la chemioterapia.

Perché enzalutamide riesce ad essere efficace anche nei pazienti resistenti alla terapia ormonale? «Perché i meccanismi con cui il tumore resiste ai farmaci tradizionali è un meccanismo di adattamento attraverso il quale vengono aumentati i ricettori per gli androgeni e quindi il tumore riesce a crescere anche con livelli molto bassi di testosterone» continua Berruti.- Addirittura, le cellule tumorali riescono ad auto prodursi il testosterone e quindi di fatto rendersi autonome. Ecco perché un farmaco, come l’enzalutamide, che colpisce il motore può essere efficace anche nei pazienti resistenti alla classica terapia ormonale (a base di  goserelin, leuprolide, leuprorelina e altri analoghi dell’ormone LHRH N.d.R)

«Il recettore degli androgeni è il motore del carcinoma prostatico, ossia il principale oncogene responsabile dell’aggressività della neoplasia. Tale molecola prima si lega al testosterone, successivamente il complesso testosterone-recettore migra nel nucleo delle cellule, si lega al DNA e lo stimola a sintetizzare le proteine responsabili della crescita tumorale – spiega Berruti –  Enzalutamide azzera la funzione stimolante del recettore agendo a più livelli: inibisce il legame recettore-testosterone, inibisce la traslocazione del segnale dal citoplasma all’interno del nucleo e, da ultimo, inibisce la stimolazione del DNA ad opera del recettore e del suo ligando».

Lo studio AFFIRM ha dimostrato che enzalutamide è in grado di contrastare la crescita del tumore e delle metastasi, migliorando in maniera statisticamente significativa la sopravvivenza globale (4,8 mesi) rispetto al placebo (18,4 vs 13,6 mesi), con miglioramento della sopravvivenza libera da progressione radiografica, in pazienti che si dimostravano non più responsivi all’ormonoterapia tradizionale e alla chemioterapia.

Buono il profilo di sicurezza e tollerabilità: il farmaco ha migliorato la qualità di vita dei pazienti rispetto al placebo (43% vs 18%), secondo il punteggio del questionario somministrato durante il trial. Nei pazienti con metastasi ossee, a forte rischio di complicanze scheletriche come fratture e compressioni del midollo spinale, enzalutamide ha prodotto una significativa riduzione del rischio di sviluppare questi eventi rispetto al placebo. Enzalutamide non richiede l’aggiunta di steroidi e non presenta effetti collaterali importanti quali quelli cardiovascolari.

Quali sono a tutt’oggi gli unmet needs nel trattamento del tumore della prostata? « Nonostante la ricerca scientifica abbia conseguito notevoli risultati nell’ambito del tumore della prostata negli ultimi decenni – chiarisce Montorsi  - nel trattamento di tale patologia esistono ancora dei bisogni insoddisfatti. Nell’ambito dell’identificazione dei soggetti affetti da neoplasia prostatica, l’utilità dello screening mediante PSA rimane tuttora dibattuta. Nonostante studi prospettici randomizzati abbiano dimostrato che l’inclusione in programmi di screening riduca il rischio di malattia avanzata o metastatica alla diagnosi, l’effettiva riduzione del rischio di mortalità è ancora molto dibattuta. L’identificazione di fattori di rischio e nuovi biomarcatori utili alla diagnosi del tumore prostatico rimane ancora una delle priorità della ricerca in campo urologico. Nell’ambito della terapia curativa del tumore della prostata, bisogna sottolineare come tale patologia rappresenti un’entità estremamente eterogenea: non tutti i pazienti beneficiano allo stesso modo dello stesso trattamento. L’introduzione di test genetici può aiutare nella pratica clinica a identificare quale paziente possa beneficiare di trattamenti più aggressivi e quale invece possa essere gestito in maniera conservativa. Questo consentirebbe di evitare le complicanze legate all’intervento chirurgico in una proporzione significativa di pazienti, senza però comprometterne i risultati oncologici. Al contrario, l’identificazione dei pazienti a maggior rischio di progressione clinica consentirebbe di selezionare i migliori candidati alle terapie più aggressive. Un importante punto, infine, che richiede ulteriori evidenze, è rappresentato dalle indicazioni e dalla corretta tempistica di somministrazione delle terapie sistemiche nei pazienti con malattia metastatica. In particolare, la disponibilità di nuove molecole rende necessari studi per ottimizzarne l’utilizzo con l’obiettivo di ridurre il rischio di progressione clinica nei pazienti affetti da malattia più aggressiva.»