Somministrazioni ripetute di rituximab in pazienti affetti da vasculite o lupus eritematoso sistemico (LES) non sono risultate associate ad alcun aumento dell’incidenza di ipogammaglobulinemia in uno studio monocentrico retrospettivo di un gruppo di ricercatori inglesi, uscito da poco sulla rivista BMC Musculoskeletal Disorders.

Al momento della prima somministrazione dell’anticorpo monoclonale, i pazienti con livelli di IgG inferiori a 6 g/l sono risultati il 13%, mentre 2 e 5 anni dopo l’incidenza dell’ipogammaglobulinemia è risultata del 17% e 14%, e, quindi, sostanzialmente stabile.

Inoltre, non si è trovata alcuna correlazione tra l'esposizione cumulativa a rituximab e rischio di infezione (r = -0,093; IC al 95% da - 0,242 a - 0,060; P = 0,217).

Rituximab è sempre più usato nel trattamento di vari tipi di malattie autoimmuni e, sebbene la cura spesso funzioni, di norma sono necessarie più somministrazioni. Tuttavia, sono state espresse preoccupazioni circa gli effetti a lungo termine sulla produzione delle IgG, che sono prodotte principalmente dai linfociti B, bersaglio di rituximab.

Infatti, le IgG svolgono un ruolo importante nell'immunità adattativa e una grave deplezione di questi anticorpi, quale si osserva nelle sindromi da immunodeficienza primaria, aumenta il rischio di infezione.

Tuttavia, si legge nell’introduzione del lavoro, si sa poco sugli effetti dell’immunodeficienza secondaria provocata dalla terapia immunosoppressiva nei pazienti con malattie autoimmuni multisistemiche.

Per saperne di più, David RW Jayne, dell'Università di Cambridge, e altri autori hanno esaminato le cartelle cliniche di 177 pazienti sottoposti a trattamento con rituximab tra il 2002 e il 2010; di questi, più della metà aveva una vasculite sistemica primaria, mentre un quarto circa era affetto da lupus e i rimanenti avevano altri disturbi tra cui la poliangite e la malattia di Behcet.

La maggior parte dei pazienti erano donne, la diagnosi era stata fatta in media da 52 mesi e l’età media al momento dell’inizio della terapia con rituximab era di 47 anni.

Quasi il 70% dei soggetti analizzati era già stato trattato con ciclofosfamide, con una dose cumulativa media di 8 g. Tra gli altri farmaci già utilizzati c’erano micofenolato mofetile, azatioprina, metotressato e idrossiclorochina.

In totale l’86% dei pazienti ha fatto più somministrazioni di rituximab, sia in seguito a una recidiva sia come dose regolare di mantenimento a 6 mesi. La dose cumulativa mediana è risultata di 6 g.

Nel 13% dei pazienti che avevano ipogammaglobulinemia al momento della prima alla prima somministrazione di rituximab, il 5% l’aveva in forma lieve (IgG tra 5 e 5,9 g/l), il 6% moderata (IgG tra 3 e 4,9 g/l) e il 6% grave (IgG inferiore a 3 g/l) nel 2%.

I livelli effettivi di IgG sono risultati simili per tutto il follow-up, con una mediana di 9,3 g/l al momento della prima somministrazione dell’anticorpo, 8,4 g/l 6 mesi più tardi e 8,25 g/l dopo 5 anni.

Inoltre, non si sono osservate riduzioni significative delle IgA, mentre i livelli di IgM sono diminuiti, passando da 0,8 g/l a 0,55 g/l dopo 5 anni.

Si sono, invece, osservate alcune differenze in funzione delle quantità di rituximab somministrate. I livelli delle IgG sono rimasti stabili nei pazienti la cui dose cumulativa era stata inferiore a 6 g. Al contrario, i pazienti a cui sono stati somministrati 6 g o più avevano inizialmente livelli mediani di IgG pari 9,8 g/l, ma dopo 5 anni i livelli sono scesi a 7,5 g/l. In ogni caso, osservano i ricercatori, la variazione non è significativa (P = 0,381).

Durante un totale di 8012 mesi-paziente di follow-up, si sono osservate 177 infezioni in 71 pazienti. La frequenza delle infezioni è in genere scesa nel tempo, con 21,5 casi per 100 anni-paziente nel primo anno, 10,9 nel secondo, e 5,2, 1,9 e 2,5 rispettivamente nel terzo, quarto e quinto.

Infezioni gravi sono state osservate nel 42% dei pazienti in cui le IgG erano inferiori a 6 g/l e nel 39% di quelli con livelli di IgG superiori.

Nella discussione, gli autori osservano che i loro risultati dovrebbero essere interpretati alla luce delle strategie cliniche utilizzate nel loro centro per minimizzare i rischi di infezione; tra queste, un attento monitoraggio delle immunoglobuline, il non utilizzo di altri immunosoppressori durante la terapia con rituximab e una riduzione del ricorso ai corticosteroidi. Inoltre, i pazienti che sviluppano infezioni ricorrenti sono sottoposti a una profilassi antibiotica e all’infusione di immunoglobuline per via endovenosa, se necessario.

"I nostri dati suggeriscono che a patto di eseguire un attento monitoraggio e di utilizzare con giudizio le terapie profilattiche, l’ipogammaglobulinemia IgM, la transitoria ipogammaglobulinemia IgG lieve/moderata o l’occasionale ipogammaglobulinemia IgG grave osservate nei pazienti sottoposti a somministrazioni ripetute di rituximab non sono fattori determinanti ai fini del rischio di infezione in una popolazione affetta da una malattia autoimmune multisistemica grave" concludono i ricercatori.

H. Marco, et al. The effect of rituximab therapy on immunoglobulin levels in patients with multisystem autoimmune disease. BMC Musculoskeletal Dis 2014; doi: 10.1186/1471-2474-15-178.
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