L’utilizzo degli antidolorifici oppiacei nel nostro Paese sta registrando un trend in crescita rispetto al 2013. L’aumento generale del consumo di oppiacei varia dal 2,8% (dati a unità espressi in DDD) per gli alcaloidi naturali dell’oppio (morfina, idromorfone, oxicodone e codeina in associazione) al 7,9% per altri oppiacei (tramadolo e tapentadolo).

Questo dato, proveniente dal rapporto Osmed 2014 (Osservatorio sull'impiego dei medicinali), presentato all’Aifa la scorsa settimana, è una notizia che riteniamo positiva per i pazienti che lottano contro il dolore dovuto a varie patologie, oncologiche e non.

La diffusione del dato sul consumo di oppioidi ha, però, allarmato medici e pazienti. Esasperando la notizia, si è parlato di abuso di farmaci antidolorifici,soprattutto da parte degli anziani, con conseguenze pesanti per la loro salute. Ricordiamo che nel rapporto Osmed, pochi farmaci oppiacei hanno registrato degli aumenti consistenti nella variazione di spesa convenzionata rispetto al 2013; tra questi spicca il tapentadolo con un incremento del 38,5%. Un farmaco peraltro da poco in commercio e dunque più naturalmente esposto a trend di crescita.

Abbiamo approfondito la questione con un’intervista a un esperto in farmaci e terapia del dolore, il prof.  Giustino Varrassi, presidente Fondazione Paolo Procacci onlus, presidente European League Against Pain (EULAP), già Ordinario di anestesia e rianimazione, dipartimento di Scienze Chirurgiche, Università degli studi dell’Aquila.

Professor Varrassi, pochi giorni fa l’Osservatorio sull’impiego dei medicinali (OsMed) ha presentato il rapporto sul consumo dei farmaci nei primi nove mesi del 2014. In particolare, la presentazione dei dati sulla utilizzazione di farmaci analgesici in Italia ha destato una certa preoccupazione, riverberata su tutti i media nazionali. Secondo lei l’allarme è giustificato? Qual è la sua chiave di lettura?

Certamente il cittadino comune resta impressionato dal dato che alcuni analgesici hanno registrato un incremento di consumo di oltre il 30%. Se poi si parla di oppiacei, immediatamente scatta nella memoria il ricordo ancor troppo recente di una oppiofobia imperante per due secoli e che, solo grazie a delle grandi ed estenuanti campagne di sensibilizzazione sociale, si è riusciti con difficoltà a rimuovere.

Alcune riflessioni, tuttavia, si impongono, per evitare un uso discutibile di dati statistici. Quando si parla in termini percentuali, resta sempre da definire quale fosse il punto di partenza. Facciamo l'esempio di un farmaco (analgesico o non analgesico che sia) registrato e immesso in commercio nel 2012. Non è difficile immaginare che, a seguito di una buona attività di comunicazione scientifica, il suo uso possa incrementare, ancora nel secondo anno dopo il lancio, del 30%. Anzi, tale valore potrebbe addirittura essere considerato scarso, dato che il valore di partenza era basso a causa del recente lancio.

Sono state diffuse anche notizie allarmanti sulla prescrizioni di questi farmaci al di fuori della terapia del dolore, in particolare nei pazienti anziani, con rischio dipendenza. Cosa ne pensa?
Se comprendo la necessità, per motivi mediatici, di sfornare numeri e tabelle che "facciano effetto", resto perplesso nei confronti di dichiarazioni che potrebbero avere conseguenze spiacevoli nel già difficile rapporto medico-paziente. Mi pare che le persone della mia età che hanno passato la loro vita a combattere il dolore nei loro malati e che ora ne siano affetti loro stessi non abbiano bisogno di "dati terrificanti" ma di soluzioni ai loro problemi.

Al contrario, leggo nelle dichiarazioni riportate dalla stampa degli inutili allarmismi, spesso non basati su un uso corretto dei dati ma, piuttosto, miranti a colpire la fantasia dei malati, quasi dicendogli: "Fate attenzione. Per curare i vostri dolori, potreste cadere vittime di un problema ben peggiore: la tossico-dipendenza". Questa lettura, non certo mia esclusiva ma piuttosto molto diffusa fra le persone con cui in questi giorni ho avuto modo di parlare dell'argomento, è decisamente pericolosa e poco scientifica. Senza entrare nei dettagli, non essendo questa la sede, vorrei solo far notare che la "dipendenza" ha una origine molto complessa, molto difficilmente possibile nelle persone anziane. A lato di questo, vorrei anche far notare che i farmaci analgesici in generale (certamente gli oppiacei) sono consegnati al malato solo a seguito di una prescrizione medica.

Ritengo che il difficilissimo tema del trattamento del dolore negli anziani meriterebbe un approccio basato su una formazione specifica e qualificata di chi ogni giorno si trova a combattere questo problema sanitario che, grazie ai successi di un SSN che sta determinando un notevole prolungamento delle aspettative di vita, sta diventando molto diffuso.

Non crede però che l’allarme sia giustificato dal timore che i cittadini non si curino in modo appropriato. O, forse, nemmeno hanno ancora capito come e a chi rivolgersi per curare il dolore?
Condivido il concetto che gli italiani si curino male. A volte si avventurano in terapie, anche potenzialmente pericolose, senza consultare alcun medico. Ciò nonostante, ritengo sia importante precisare che il consumo italiano di oppiacei per scopi terapeutici resti ancora al di sotto delle soglie toccate in molti altri Paesi della Comunità Europea. Starei attento, quindi, a generare potenziali allarmismi, che potrebbero ricondurre nuovamente verso un pericoloso atteggiamento "oppiofobico", fortemente combattuto nel recente passato ed ancor oggi non completamente debellato.

Come clinico, preferirei che il tema in discussione fosse non la quantità di oppiacei che si utilizzano ma la qualità del trattamento del dolore erogato dal SSN. Se si concentra l'attenzione su questo aspetto, emergono ancora molte aree di necessario miglioramento. Di fatto, ancora molte Regioni non hanno ben definito la indispensabile rete assistenziale per i pazienti con dolore, nonostante le indicazioni della legge 38/2010 siano ormai vecchie di 5 anni. Alcune altre hanno una disponibilità di posti letto per Cure Palliative ben al di sotto degli standard ritenuti minimali in altre realtà assistenziali pubbliche dei Paesi con sistemi sanitari a prevalente caratterizzazione pubblica.

Emilia Vaccaro