Gastroenterologia ed epatologia

Epatite C, dall'interferone alle doppiette di farmaci di ultima generazione

Come si è evoluto il trattamento dell'infezione da virus dell'epatite C negli ultimi anni? E' stata una vera rivoluzione, sottolineano gli infettivologi presenti alla XVI edizione del congresso nazionale della SIMIT che si chiude oggi a Salerno. Si è passati da terapie a base di interferone e ribavirina, lunghe e accompagnate da diversi effetti collaterali a triplette che colpiscono il virus su più fronti garantendo tassi di risposta virologica sostenuta elevatissimi anche in popolazioni difficili da trattare e nei pazienti con coinfezione HIV/HCV, fino all'accorciamento dei tempi di trattamento arrivando a 8 settimane e all'utilizzo di questi farmaci anche in pazienti con comorbidità importanti come l'insufficienza renale.

Come si è evoluto il trattamento dell’infezione da virus dell’epatite C negli ultimi anni? E’ stata una vera rivoluzione, sottolineano gli infettivologi presenti alla XVI edizione del congresso nazionale della SIMIT che si chiude oggi a Salerno. Si è passati da terapie a base di interferone e ribavirina, lunghe e accompagnate da diversi effetti collaterali a triplette che colpiscono il virus su più fronti garantendo tassi di risposta virologica sostenuta elevatissimi anche in popolazioni difficili da trattare e nei pazienti con coinfezione HIV/HCV, fino all’accorciamento dei tempi di trattamento arrivando a 8 settimane e all’utilizzo di questi farmaci anche in pazienti con comorbidità importanti come l’insufficienza renale.

“Siamo passati da una terapia difficile da assumere” –ha sottolineato Giovanni Di Perri, Professore ordinario di Malattie Infettive dell'Università degli Studi di Torino-“di una certa durata con effetti collaterali importanti e controindicazioni rilevanti,  a qualcosa di accessibilità universale.  Oggi possiamo curare soggetti con solo con insufficienza renale ma addirittura in dialisi con stessa efficacia dei soggetti senza queste comorbidità. Siamo passati dalle iniezioni settimanali di interferone e dalla ribavirina che generava anemia ,alla somministrazione odierna di una pillola al giorno per due mesi”.

“I farmaci per l’HCV nel recente passato dovevano lavorare in associazioni multiple per poter coprire la capacità del virus di sfuggire e determinare un fallimento del trattamento antivirale-ha puntualizzato Carlo Federico Perno, Ordinario di Virologia all'Università di Roma Tor Vergata e Primario dell'Unità Complessa di Virologia Molecolare, Policlinico di Tor Vergata di Roma.

“Inoltre, ha proseguito Perno- “non bisogna trascurare il problema delle resistenze associato a questi farmaci, che non soltanto inficiano il primo trattamento ma anche i successivi e, quindi, la possibilità di guarire in modo definitivo dall’HCV. I nuovi farmaci sono più potenti, privi di tossicità rilevante e soprattutto hanno aumentato la cosiddetta barriera genetica che per queste nuove molecole è molto elevata e gli consente di contenere la capacità del virus di sfuggire. Ecco perché oggi possiamo permetterci un trattamento a due farmaci.”

 “Una limitazione nel trattamento dei pazienti con epatite C tossicodipendenti è l’interazione farmacologica, bisogna fare attenzione alle sostanze che il soggetto si inietta per evitare interazioni.  Con i nuovi farmaci questi problemi sono ridotti. Oggi grazie alle terapie che durano solo due mesi, possiamo dare una singola compressa al giorno e quindi in un paziente complicato avere un farmaco con semplicità di assunzione e che funziona in tutti i genotipi vuol dire avere un’arma vincente” ha sottolineato Massimo Andreoni, direttore UOC di Malattie infettive e Day Hospital Dipartimento di Medicina, Policlinico Tor Vergata, Roma.

 “In un’analisi retrospettiva che abbiamo eseguito sull’associazione glecaprevir/pibrentasvir-ha evidenziato il prof. Massimo Puoti, direttore Malattie infettive Azienda Ospedaliera Niguarda Ca Granda Milano- due nuovi farmaci recentemente registrati da EMA e ultimamente rimborsabili dal nostro servizio sanitario nazionale, somministrata per 8 o 12 settimane tre compresse al giorno in pazienti non cirrotici ha mostrato risultati completamente sovrapponibili tra le 8 e le 12 settimane con percentuali di risposta superiori al 98% e senza differenze nelle subanalisi con coinfetti, pazienti già trattati etc.

Questo risultato è di grande importanza per i centri italiani perché avere una terapia più breve significa fare meno visite e poter trattare più pazienti con le stesse risorse umane e per il paziente meno ritiri di farmaci e più facilità di cura. Inoltre, il numero delle recidive è risultato inferiore al 2%”.

Come ha illustrato Perno durante un simposio del congresso, la seconda generazione di inibitori delle proteasi e la seconda generazione di inibitori dell’NS5A mostrano un’alta potenza e un’elevata barriera genetica che ci consentono di ragionare in maniera differente rispetto al passato; cambia la barriera generica di questi farmaci ma cambia soprattutto la barriera genetica di regime cioè la loro associazione permette di ottenere effetti sinergici sia in termini di efficacia, sia in termini di raggiungimento dello 0 e una barriera genetica molto elevata.

In conclusione, la differenza nella pratica clinica la fanno le combinazioni di farmaci facili da gestire con tempi più brevi di trattamento e con alta barriera alla resistenza. “Oggi abbiamo 4 farmaci a barriera genetica medio-alta”-ha concluso Perno-“ sofosbuvir, grazoprevir, glecaprevir e pibrentasvir che è l’unico della classe degli inibitori del complesso replicativo NS5A. Le associazioni di questi ci garantiscono trattamenti a due farmaci . Quando nella stessa pillola ne abbiamo due di questi ad alta barriera genetica questo è un valore aggiunto. Nei pazienti complessi, che hanno già fallito precedenti trattamenti se li vengono trattati con una combinazione fissa e l’aggiunta di sofosbuvir i tassi di risposta sono del 100%, questo dimostra che l’alta barriera genetica ha un rilievo sostanziale”.