Grazie alle tecniche di neuroimaging, e in particolare alla risonanza magnetica (RM), è possibile non solo effettuare lo studio delle funzioni e delle malattie cerebrali, ma si può verificare in via sperimentale o monitorare in fase clinica l’efficacia dei farmaci, in particolare di quelli contro la sclerosi multipla (SM). È questo uno dei messaggi più rilevanti emersi da un convegno svoltosi al Museo di Storia Naturale di Milano, all’inaugurazione della mostra “Brain. Istruzioni per l’uso”.

«Tra i vari parametri misurabili mediante RM, uno di quelli che quasi immediatamente si è rivelato utile nel fornire informazioni è stata la possibilità di misurare in vivo il volume del cervello, dato una volta ottenibili solo tramite l’autopsia» ha sottolineato Giancarlo Comi, Direttore del Dipartimento Neurologico e dell’Istituto di Neurologia Sperimentale (INSPE) dell’Istituto Scientifico San Raffaele di Milano-Università Vita-Salute e presidente SIN (Società Italiana di Neurologia).

«Queste misurazioni» ha aggiunto «hanno confermato un aspetto già noto dagli studi di anatomia patologica, ovvero che con il passare degli anni il cervello gradualmente si riduce di volume. Questo fenomeno è accentuato in modo variabile nelle persone che soffrono di malattie degenerative. Quindi misurando l’atrofia cerebrale è possibile sapere se una determinata terapia è più o meno efficace, ovvero se è in grado di rallentare il processo degenerativo».

In tal senso, ha ricordato «la prima vera utilizzazione estensiva dell’atrofia cerebrale come parametro di efficacia si è avuta nel campo della sclerosi multipla, perché nei pazienti affetti da questa patologia l’atrofia cerebrale è accelerata nel suo sviluppo temporale rispetto ai soggetti sani».

Quali vantaggi offre questa tecnica? «Sono diversi» risponde Comi. «Innanzitutto è una misura oggettiva, seppure influenzata da vari fenomeni che condizionano il volume del cervello, come lo stato di idratazione del soggetto o, nella donna, il ciclo mestruale». Peraltro questi aspetti – fa notare il presidente SIN – a causa del processo di randomizzazione, sono in genere equamente distribuiti tra i due bracci della sperimentazione, per cui la differenza in termini di atrofia è legata solo al fatto di ricevere o meno la terapia. «Questa misura, inoltre, ha una buona riproducibilità, aspetto importante principalmente nelle sperimentazioni cliniche» ha precisato, ed «è una misura che offre un impatto globale della terapia sulla struttura nervosa».

Comi ha sottolineato un altro concetto fondamentale. «Esiste una correlazione tra le prestazioni del cervello e il livello di atrofia: il cervello svolge numerose funzioni, ma una buona parte della massa del tessuto cerebrale è impegnata in attività mentali o cognitive. Proprio per questo l’atrofia cerebrale correla in particolare con il livello di alterazione delle funzioni cognitive, oltre che con misure globali di impatto della malattia sulle capacità della persona, ovvero sulla disabilità».

«È evidente che con un trattamento in grado di ridurre il processo di degenerazione del tessuto nervoso l’atrofia cerebrale si svilupperà più lentamente e tenderà ad avere la stessa evoluzione che osserviamo nella persona sana» ha osservato Comi, che ha affermato: «In questi ultimi anni abbiamo visto che alcune terapie riescono ad avere un effetto molto positivo sulla progressione dell’atrofia cerebrale».

«Già alla fine degli Anni ’90» cita Comi «da alcuni studi condotti anche dal nostro gruppo, era emerso che nelle prime fasi di malattia, terapie di natura antinfiammatoria erano in grado di esercitare qualche effetto sulla progressione dell’atrofia, riducendola. Ma le stesse terapie, usate successivamente, nella fase a ricadute e remissioni o nella fase progressiva di malattia, non modificavano l’evoluzione dell’atrofia».

«Invece recentemente alcuni farmaci come fingolimod si sono rivelati in grado di attenuare l’evoluzione dell’atrofia cerebrale legata alla sclerosi multipla in confronto ai soggetti controllo che non lo assumevano. E il trend negativo di questi ultimi era più grave se all’inizio vi era un’infiammazione acuta del cervello».

I messaggi-chiave che emergono, ha osservato Comi, sono che i trattamenti devono essere utilizzati il più precocemente possibile, perché il danno - una volta determinato - non è più recuperabile. Un punto da tenere a mente quando, in terapia, nel dubbio, si attua un atteggiamento attendista.

«Questo tipo di beneficio inoltre offre una prospettiva anche per la cura dei danni cognitivi, perché alcuni studi dimostrano che ridurre la progressione dell’atrofia cerebrale significa ridurre anche la progressione dei deficit cognitivi» conclude il presidente SIN.

BRAIN - IL CERVELLO - Istruzioni per l'uso
Milano - Museo di Storia Naturale, da venerdì 18 ottobre 2013 a domenica 13 aprile 2014
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