Ha già preso il largo negli Stati Uniti un ambizioso progetto di ricerca sulla prevenzione dell’Alzheimer, alimentato dai nuovi promettenti mezzi per identificare i soggetti a rischio e dalle misure preventive che potrebbero potenzialmente rallentare la progressione della malattia.

Il programma, chiamato Alzheimer’s Prevention Initiative e coordinato da Eric Reiman e collaboratori del Banner Alzheimer’s Institute di Phoenix, in Arizona, ha ottenuto i finanziamenti necessari dal National Institute on Aging e dal altre agenzie governative, oltre che da aziende farmaceutiche e organizzazioni filantropiche.

Ed è già iniziato l’arruolamento del primo dei due studi clinici del programma che coinvolgeranno ampie popolazioni di soggetti presintomatici ad altissimo rischio genetico di sviluppare una malattia di Alzheimer sintomatica. Uno studio coinvolgerà 2.000 persone residenti nell’area di Medellin, in Colombia, dove vive il gruppo di parenti più numeroso al mondo di portatori della mutazione E280A PS1, che conferisce un rischio estremamente elevato di sviluppare precocemente l’Alzheimer. I partecipanti dovranno avere un’età vicina a quella mediana di esordio clinico della malattia di Alzheimer legata a E280A PS1, che è di 47 anni.

L’altro studio,invece, riguarderà circa 50.000 cittadini nordamericani tra i 60 e gli 80 anni, di cui sarà analizzato il genotipo ApoE. Si sa che i soggetto con due copie dell’allele ApoE e4 hanno un rischio del 91% di sviluppare la malattia con un età mediana di esordio di 68 anni, mentre quelli con una copia sola un rischio del 47% con un età mediana di esordio di 75 anni. Le due copie sono presenti nel 3% della popolazione nordamericana, mentre una copia sola nel 24%.

I due studi dell’Alzheimer’s Prevention Initiative costituiranno il primo vero test della validità dell’ipotesi della cascata amiloide nella patogenesi della demenza di Alzheimer, secondo la quale l’accumulo della proteina amiloide giocherebbe un ruolo critico nello sviluppo della malattia. Questa ipotesi, però, resta ancora da dimostrare.

Al momento, un team di consiglieri dell’Alzheimer’s Prevention Initiative, ricercatori provenienti dal mondo accademico e dall’industria farmaceutica, sta selezionando le prime terapie preventive sperimentali contro l’amiloide da testare negli studi. Ce ne sono molte tra cui scegliere: tra cui dozzine di inibitori sperimentali della beta- e della gamma-secretasi, agenti che inibiscono l’aggregazione dell’amiloide e immunoterapie sperimentali attive e passive contro la proteina.

Iniziare presto potrebbe essere la chiave per massimizzare il beneficio di queste terapie mirate a frenare la progressione della malattia. Infatti, nel momento in cui una persona manifesta un deficit di memoria lieve, ma non ancora  invalidante, la placca amiloide ha già raggiunto il suo massimo. Le fibrille si sono già sviluppate ed è già iniziata la perdita di sinapsi e di neuroni. Si potrebbe dover iniziare il trattamento anni prima dell’esordio dei sintomi, e le nuove tecniche di diagnostica per immagini lo permetterebbero, perché sono in grado di rilevare la presenza delle placche amiliidi già 10-15 anni prima.

Secondo Reiman sono necessari anche studi clinici rigorosi per testare mettere alla prova le numerosi possibili strategie di riduzione del rischio identificate negli studi epidemiologici o in quelli neurobiologici sull’animale, strategie di cui è nota la sicurezza ma non è ancora dimostrata l’efficacia. Tra queste figurano le statine, terapie antipertensive, la dieta mediterranee, agenti insulino-sensibilizzanti, il consumo moderato di alcol, gli antiossidanti, l’esercizio mentale e l’attività sociale, il calo ponderale e l’esercizio aerobico.

Ritardare l’esordio della demenza anche solo di 5 anni senza aumentare l’aspettativa di vita, ha ricordato lo psichiatra, vuol dire aver la possibilità di dimezzare il numero di nuovi casi, dato che l’incidenza raddoppia ogni 5 anni dopo i 60. Reiman si è detto convinto che ci siano trattamenti che potrebbero ritardarlo ancora di più. Si tratta ora di metterli alla prova.

Oltretutto, il percorso per arrivare a un’eventuale approvazione è attualmente meno difficile che in passato. L’Fda ha infatti abbassato l’asticella delle sue richieste per concedere il via libera alle nuove terapie anti-demenza e considera oggi i dati di imaging e sui biomarker evidenze accettabili per dire che un farmaco è indicato rallentare la progressione della malattia.