Un filone di ricerca tutto italiano apre la via alla comprensione della malattia di Alzheimer e alla possibilità di trovare, in futuro, nuove possibilità di cura, attraverso la scoperta della funzione di un enzima, chiamato ADAM 10, in grado di prevenire la produzione di Beta amiloide, da anni considerato uno dei principali “indagati” nella morte neuronale.

Nel corso dei lavori della 36° Edizione del Congresso Nazionale della Società Italiana di Farmacologia, in programma a Torino dal 23 al 26 ottobre 2013 presso il Centro Congressi del Lingotto, presieduto dal Professor Pier Luigi Canonico,  Presidente SIF e Professore ordinario di Farmacologia presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale, l’intervento della Professoressa Monica Di Luca, del Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell’Università di Milano punta i riflettori sui risultati, ad oggi, ottenuti dal Gruppo di ricercatori da lei guidato.

“Innanzi tutto – afferma la Professoressa Di Luca – vorrei mettere a fuoco le motivazioni della nostra ricerca: nonostante i grandi progressi nella conoscenza delle basi biologiche della malattia di Alzheimer, queste non sono ancora completamente chiarite. Occorre identificare nuovi bersagli e nuove vie biochimiche. Quello che è certo – continua Di Luca – è che l’amiloide, in questa patologia, è il target giusto, e se i farmaci in cui si sperava tanto non si sono rivelati completamente efficaci, è perché noi abbiamo sempre ragionato in termini di fase molto avanzata della malattia, quando l’accumulo di questa proteina produce effetti devastanti. Quello che stiamo, invece, cercando di capire è che cosa fanno le forme di aggregazione iniziali di questo piccolo peptide (l’amiloide), quando la formazione di aggregati è ancora agli inizi”.

“C’è una chiave di lettura molto importante nella malattia di Alzheimer – prosegue Di Luca - che sta alla base della nostra ricerca: le prime fasi della malattia non vedono la degenerazione delle cellule nervose. Quello che notiamo all’inizio è un “malfunzionamento” delle sinapsi. Se riusciamo a bloccare questo “difetto” si evita la degenerazione cellulare. Per questo, nel nostro laboratorio abbiamo cercato di studiare il collegamento tra la produzione di amiloide e la perdita di connettività delle sinapsi, in particolar modo quelle eccitatorie, che sono la base morfologica della nostra fase di apprendimento e di memorizzazione”.

“Innanzi tutto – aggiunge Di Luca - abbiamo scoperto che uno degli enzimi importanti nella formazione del Betapeptide amiloide è localizzato in queste sinapsi, con un ruolo definito nella fisiologia delle connessioni neuronali. Abbiamo, però, anche scoperto la funzione determinante di un enzima chiamato ADAM 10 che previene la formazione di amiloide. E infine abbiamo identificato il ruolo cruciale della proteina AP2 che mette fuori gioco l’attività protettiva di ADAM 10, estromettendo l’enzima dalla sinapsi. Per concludere, se scopriamo come stabilizzare questo enzima nel contatto sinaptico, riusciamo a prevenire la produzione di Beta amiloide”.

Lo Studio della Professoressa Di Luca, pubblicato recentemente sul Journal of Clinical Investigation, è il primo a contestualizzare la malattia di Alzheimer nel contesto sinaptico, in modo molto preciso, scoprendo i meccanismi che regolano una delle vie principali della malattia stessa. I prossimi passi sono quelli di trovare il metodo farmacologico per bloccare l’enzima ADAM 10 sulla membrana cellulare, prolungandone l’attività.

E’ una scommessa, questa, molto importante, se consideriamo che la malattia di Alzheimer è tra le dodici patologie cerebrali a più alto costo sociale ed economico per la società europea. Studi recenti, riportano che in Europa il costo totale delle patologie del cervello – considerando costi diretti e indiretti – ammonta a 789 miliardi l’anno, dove le “demenze” esprimono un costo annuo complessivo di 105,163 miliardi per 6,3 milioni di pazienti. In Italia il costo e il carico della demenza è di 8,6 miliardi di euro l’anno, con circa 700.000 casi stimati.

Costi che continueranno a crescere nel quadro di un’aspettativa di vita della popolazione europea in continuo aumento.

“A questo proposito – conclude Di Luca – è bene ricordare che una diagnosi precoce e una terapia tempestiva possono contribuire a rallentare la progressione della malattia e l’istituzionalizzazione dei pazienti, oltre che ridurre la prevalenza di malattia nella popolazione del 30%. Tutto questo è stato stimato per i pazienti in 6 anni in più di vita serena, senza aumentare le aspettative di vita”.