Lo shock prodotto dalla diagnosi della Degenerazione Maculare Legata all’Età (DMLE) è solo il primo di una lunga e invalidante serie di colpi sulla vita dei pazienti affetti da questa patologia (colpito il 35% degli over 70) che può portare alla perdita della vista. È solo uno dei risultati - presentati in un incontro a Roma- di una ricerca condotta da GfK Eurisko per inquadrare i percorsi dei pazienti prima di giungere alla terapia, sottolineando come lo schema posologico di un nuovo farmaco influisca positivamente sulla qualità di vita.

I vissuti, le problematiche e le attese del paziente

«È stata condotta preliminarmente un’indagine sulla popolazione over 50 (campione di 525 individui rappresentativi della popolazione italiana 50+) per verificare i comportamenti di prevenzione e screening» spiega Isabella Cecchini, direttore del dipartimento ricerche sulla salute GfK Eurisko. «Successivamente è stato fatto un approfondimento su pazienti affetti da degenerazione maculare legata all’età allo scopo di comprendere le conoscenze sulla malattia, i percorsi di accesso alla diagnosi, l’impatto sulla qualità di vita, i vissuti e i bisogni legati alla gestione della malattia e alla terapia».

È emerso che circa 4 milioni di italiani over 50 (16% della popolazione 50+) non ha mai fatto una visita dall’oculista e solo il 40% ha fatto una visita nell’ultimo anno. «La ricerca» sottolinea Biagini «ha messo in luce una generale disinformazione circa la degenerazione maculare, le sue cause e la sua gestione. Nessun malato riporta una conoscenza pregressa del problema, in genere la diagnosi arriva per tutti tardiva e come un fulmine a ciel sereno. Aggrava la situazione la poca sensibilizzazione dei malati sull’area generale delle patologie oculari. Gli intervistati hanno raccontato di aver trascurato nel tempo la loro vista senza recarsi ciclicamente ai controlli e senza immaginare il rischio di incorrere in problemi».

«Il disagio iniziale per le iniezioni intravitreali è però presto superato grazie al beneficio prodotto dalla remissione dei sintomi: i pazienti descrivono la terapia come l’unica arma per tornare a vivere “sprazzi di normalità”. Unico neo è per molti la continuità e scarsa prevedibilità dei controlli e delle iniezioni, che sul piano pratico impediscono al paziente di programmare liberamente la propria quotidianità e sul piano emotivo disorientano il paziente perché fanno percepire la malattia come poco prevedibile nella sua evoluzione.

Se le terapie sono troppo ravvicinate, la tregua emotiva è più difficile

«Il nostro occhio è prima di tutto mezzo di conoscenza e di comunicazione e per questo che, in condizioni normali non è sentito concretamente come un organo o una funzione corporea. Questo tipo di astrazione è il motivo per il quale è difficile attribuirgli una malattia e spiega perché certi sintomi vengano a lungo ignorati o semplicisticamente assegnati a processi naturali come la vecchiaia» commenta Gianna Schelotto, psicoanalista e psicoterapeuta.

«Le risposte al questionario GfK Eurisko sembrano confermare questa diffusa tendenza psicologica. Quando però l’occhio si ammala, e la degenerazione maculare è un classico esempio di questa situazione, si è messi a confronto con una realtà drammatica che crea pesanti coinvolgimenti anche dal punto di vista psicologico».

«Ogni volta che, grazie alla terapia, si verifica un ricupero sia pure transitorio dell’acuità visiva, l’immagine corporea sembra ricomporsi e il malato sente allentarsi la morsa dell’ansia» sottolinea Schelotto. «Ma se le terapie in grado di offrire questo risultato sono eccessivamente ravvicinate diventa più difficile e psicologicamente più faticoso darsi una tregua sia fisica sia emotiva. Il paziente, infatti, sottoposto a scadenze incalzanti, vive una serie di “ricostruzioni” e di “rotture” dei propri schemi psicologici e questa alternanza di attese e di ritorni non giova certamente al suo già tanto provato benessere».

«La possibilità di ottenere validi risultati in tempi più dilatati può favorire un migliore e più duraturo ricupero della propria immagine corporea e permettergli di adattarsi gradualmente alle gravi implicazioni che la malattia comporta» conclude Schelotto.

L’avvento di aflibercept e il ridotto numero di iniezioni intravitreali

«Se per la forma secca della patologia il decorso è molto lento e progressivo, nella forma umida (circa il 15 per cento dei casi) la perdita di acuità visiva può essere estremamente rapida e creare pesanti ripercussioni sul paziente e sui suoi familiari» afferma Monica Varano, Responsabile Servizio Retina Medica IRCCS Fondazione G.B. Bietti di Roma.

«Oggi per la cura di questa patologia abbiamo a disposizione un nuovo farmaco totalmente rimborsato dal Ssn, aflibercept, che si aggiunge agli altri Vegf già presenti. Si somministra come gli altri attraverso iniezioni intravitreali. Il trattamento con aflibercept consente di ottenere risultati clinici sovrapponibili alle altre terapie disponibili con un ridotto numero di iniezioni intravitreali nel corso dell’anno: sette invece di dodici. Dopo le prime tre iniezioni, praticate a distanza di un mese l’una dall’altra, come nel caso delle terapie a base di anticorpi monoclonali, le successive iniezioni possono essere fatte ogni due mesi».

«Un farmaco come aflibercet» prosegue Varano «rappresenta un passo avanti significativo in quanto consente di effettuare un monitoraggio meno “pesante”, come dimostrano i numerosi studi clinici condotti sul medicinale. Infatti dopo una prima terapia d’attacco il monitoraggio può essere effettuato ogni due mesi. Si tratta di un dato di grande importanza, considerando che nel trattamento della patologia per avere i massimi risultati occorre sempre un monitoraggio costante della situazione, fino ad oggi effettuato a cadenza mensile. Dal punto di vista del paziente e di chi lo assiste questa possibilità di “dilazionare” nel tempo i controlli rende meno faticoso il percorso terapeutico, facilitando quindi l’aderenza alle cure».

La struttura e il meccanismo d’azione della nuova molecola

Aflibercept è una proteina di fusione solubile, costituita come un “recettore esca” che si lega a tutte le isoforme del fattore di crescita dell’endotelio vascolare-A e -B (VEGF-A e VEGF-B) e del fattore di crescita placentare (PlGF) con un’affinità maggiore di quella dei recettori naturali per il VEGF. Aflibercept forma con il VEGF un complesso inerte 1:1 molto stabile, in cui la molecola di VEGF viene trattenuta tra le due estremità della proteina di aflibercept come tra le chele di un astice.

Grazie alla sua struttura peculiare, aflibercept lega il VEGF con un’affinità maggiore di quella che si ottiene con gli anticorpi monoclonali attualmente utilizzati. In un modello matematico è stato dimostrato che, grazie alla sua elevata affinità di legame, aflibercept ha nell’occhio una durata d’azione prolungata e una elevata potenza, rendendo possibili somministrazioni meno frequenti rispetto allo standard di cura e riducendo il carico rappresentato da iniezioni, monitoraggi mensili e disagio soggettivo del paziente.

Aflibercept viene somministrato mediante iniezione intravitreale ogni due mesi, dopo tre dosi mensili iniziali di carico fino alla fine del primo anno di terapia. Nel secondo anno, l’intervallo tra i trattamenti può essere gradualmente esteso in base all’evoluzione della patologia. Aflibercept è prodotto con la tecnologia del DNA ricombinante. Dal punto di vista strutturale, si tratta di una nuova proteina di fusione composta dai domini chiave dei due recettori VEGFR1 e VEGFR2 uniti con la frazione costante (Fc) dell’immunoglobulina G1 (IgG1) umana. Tale struttura garantisce un meccanismo d’azione unico, che agisce come recettore-esca intrappolando saldamente il VEGF-A e -B e il PlGF come le chele di un’aragosta. La sequenza amminoacidica è integralmente umana e, grazie al suo peso molecolare, penetra tutti gli strati della retina.

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