Curare il diabete di tipo 1 in maniera definitiva? È il sogno che guida le ricerche degli scienziati di tutto il mondo e che sembra sempre più a portata di mano. Frenare l’attacco del sistema immunitario che distrugge le delicate cellule produttrici di insulina e allo stesso tempo trovare il modo di fare rigenerare quelle ancora esistenti sono i due filoni sui quali si stanno orientando le ricerche per la cura ‘definitiva’.

 “Il diabete di tipo 1 – ricorda la dottoressa Chiara Guglielmi, endocrinologa dell’Università Campus Biomedico di Roma – è una malattia autoimmune che deriva dalla distruzione selettiva delle beta cellule pancreatiche. Al momento della diagnosi, gran parte del corredo di beta cellule del paziente è ormai distrutto, con appena il 15-20% di cellule produttrici di insulina ancora funzionanti. In molti pazienti ‘tipo 1’, a distanza di qualche mese dalla diagnosi, si verifica il fenomeno della ‘luna di miele’: il loro fabbisogno di terapia insulinica si riduce drasticamente per qualche settimana, al punto da permettere di interrompere la somministrazione del farmaco. Questo è dovuto al fatto che le cellule beta pancreatiche residue cominciano a produrre più insulina, per sopperire quelle mancanti; il tutto però ha vita breve perché l’attacco autoimmune finisce di distruggere nell’arco di poco tempo anche le cellule superstiti”. “Da tempo si sta cercando una strada per preservare la funzione delle beta cellule residue – commenta il Prof. Stefano Del Prato, Presidente della Società Italiana di Diabetologia - perché questo permetterebbe di prevenire le complicanze croniche del diabete e di liberare il paziente dalla necessità di ricorrere a diverse punture di insulina ogni giorno”. 

Una delle strade più battute vista la natura autoimmune del diabete di tipo 1, è– illustra la dr.ssa Guglielmi -  quella dell’immunoterapia. L’idea è quella di utilizzare farmaci in grado di bloccare l’assalto del sistema immunitario del paziente contro le cellule beta pancreatiche; il loro impiego deve avvenire il più vicino possibile al momento della diagnosi e solo se ci sono cellule produttrici di insulina da proteggere (cosa che si appura dosando il ‘peptide C’ nel sangue del paziente). Di farmaci ne sono stati testati molti in questi ultimi anni, ma i risultati sono stati in genere molto deludenti, con qualche risultato incoraggiante ottenuto con l’impiego di un anticorpo monoclonale anti-CD3 (teplizumab), di un anticorpo monoclonale anti-CD20 (rituximab) e dell’abatacept.

Ma al momento l’attenzione si sta focalizzando sul DiaPep277, un peptide sintetico di 24 aminoacidi, derivato dalla Heat Shock Protein 60 umana (HSP60), capace di modulare il sistema immunitario e quindi di proteggere dalla distruzione le cellule pancreatiche produttrici di insulina.  

E’ attesa a giorni la pubblicazione su Diabetes Care dei risultati del DIA-AID1, uno studio di fase III multicentrico, condotto su oltre 400 pazienti affetti da diabete mellito 1 (primo autore dello studio è il professor Paolo Pozzilli, ordinario di Endocrinologia presso l’Università Campus Biomedico di Roma). Tutti i pazienti arruolati in questo studio avevano età compresa tra i 16 e i 45 anni, un C-peptide basale superiore a 0,2 nmol/L e sono stati arruolati entro 4 mesi dalla diagnosi di diabete. I pazienti sono stati randomizzati in due gruppi di trattamento: un gruppo di controllo, trattato con placebo e quello di trattamento attivo sottoposto a 9 somministrazioni per via sottocutanea di DiaPep277.  

A distanza di 2 anni, i pazienti trattati con il DiaPep277, mantenevano una capacità di produrre insulina, statisticamente superiore al gruppo di controllo e anche il numero di pazienti che manteneva un ottimo compenso glicemico alla fine dello studio (definito come emoglobina glicata inferiore o uguale al 7%) era significativamente più alto tra i pazienti trattati con il peptide, rispetto al gruppo placebo. Attualmente è in corso uno studio (DIA-AID2) di conferma con DiaPep277, che ha già randomizzato 475 pazienti (età 20-45 anni con diagnosi di diabete inferiore ai 6 mesi precedenti e concentrazione di C peptide basale superiore a 0,2 nmol/L); i risultati saranno disponibili alla fine del 2014. “Questi risultati – commenta il Prof. Del Prato – sono il presupposto per proseguire sulla strada dell’immunomodulazione come una potenziale strategia per preservare le beta-cellule residue presenti al momento della diagnosi del diabete tipo 1. Il problema è se queste residue beta cellule siano sufficienti a mantenere una indipendenza dalla terapia insulinica”

Gli inibitori di pompa. Il DiaPep277 quindi forse funziona. Ma il diabete di tipo 1 non è caratterizzato solo dal fatto che le beta cellule vengono distrutte per un attacco autoimmune, ma anche dal fatto che le ‘superstiti’ non sono in grado di rigenerarsi. “Quindi – afferma Chiara Guglielmi – l’unica soluzione è quella di pensare ad una ‘terapia di associazione’, che preveda sia uno scudo di protezione per le beta cellule dall’attacco immunitario, sia un farmaco che aiuti la beta cellula a rigenerarsi. E possibili candidati alla terapia rigenerativa sembrano essere gli inibitori di pompa protonica (PPI), farmaci normalmente utilizzati in chi soffre di gastrite o di ulcera peptica. Dei PPI viene sfruttato il loro effetto di far aumentare i livelli di gastrina, un ormone prodotto dallo stomaco, che oltre a regolare la secrezione gastrica, stimola anche la proliferazione delle cellule pancreatiche (quelle dei dotti), sia nell’animale che nell’uomo.  

E gli inibitori di pompa saranno dunque protagonisti di un nuovo studio su pazienti con diabete di tipo 1 neodiagnosticato nel quale, come terapia immunosoppressiva, è stato ‘ripescato’ un vecchio farmaco (la ciclosporina) comunemente utilizzato in un ampio spettro di malattie autoimmuni (dal morbo di Crohn, all’artrite reumatoide). In passato la ciclosporina era stata già utilizzata nel diabete di tipo 1, ma poi accantonata per paura di possibili effetti indesiderati a livello renale. Paura, successivamente fugata da altri studi che hanno dimostrato una sostanziale sicurezza della ciclosporina per la salute dei reni. “Da tutte queste considerazioni – spiega la dottoressa Guglielmi – è nata l’idea per un nuovo studio clinico, l’Insulin Independent Trial, che si rivolgerà a pazienti con diabete di tipo 1 di nuova diagnosi. L’obiettivo è dimostrare che i pazienti di tipo 1 trattati con ciclosporina e lansoprazolo, dopo 6 mesi di trattamento riusciranno ad ottenere un periodo libero da terapia insulinica. Il coordinatore dello studio a livello europeo sarà il professor Paolo Pozzilli e i pazienti verranno reclutati a partire da gennaio 2014.

“In conclusione – commenta Stefano Del Prato, presidente della Società Italiana di Diabetologia (SID) - il momento della diagnosi di diabete di tipo 1 è quello ideale per andare ad agire e a proteggere le beta cellule che sono ancora presenti e funzionanti. Il fallimento degli studi di immuno-intervento, per quanto concettualmente logici in una malattia autoimmune quale il diabete di tipo 1, potrebbe forse dipendere dai farmaci che sono stati impiegati, o dalla grande eterogeneità dei pazienti arruolati negli studi. Il peptide DiaPep277 offre nuovi spunti e nuove opportunità di studio. Nel frattempo aspettiamo i risultati degli studi che si concluderanno il prossimo anno per poterne ancor meglio valutare gli effetti. Ma sembra abbastanza chiaro che una terapia di associazione che miri non solo a contrastare l’attacco autoimmune alle cellule beta pancreatiche ma anche a favorirne la rigenerazione offra migliori possibilità di successo. Il tutto per il sogno di rendere i giovani con diabete di tipo 1 liberi per sempre dall’insulina”.