Cardiologia

Nuovo aggiornamento ESC delle indicazioni sulla DAPT, focus sull'approccio personalizzato

Pubblicato sullo European Heart Journal e sul sito web della European Society of Cardiology (ESC), in concomitanza con il congresso annuale della società scientifica, il primo aggiornamento sulla doppia terapia antiaggregante (Dual Antiplatelet Therapy, DAPT) nei pazienti con malattia coronarica (CAD).

Pubblicato sullo European Heart Journal e sul sito web della European Society of Cardiology (ESC), in concomitanza con il congresso annuale della società scientifica, il primo aggiornamento sulla doppia terapia antiaggregante (Dual Antiplatelet Therapy, DAPT) nei pazienti con malattia coronarica (CAD).

Un messaggio generale del documento, sviluppato in collaborazione con la European Association for Cardio-Thoracic Surgery (EACTS) e pubblicato anche sul Journal of Cardiothoracic Surgery, è che il trattamento deve essere adattato alle circostanze dei singoli pazienti.

Durante il congresso ECS, in cui il documento è stato presentato e discusso in diverse sessioni, Marco Valgimigli, dell’Università di Berna, coordinatore del gruppo di lavoro che ha redatto le nuove indicazioni, ha affermato che "non esiste un unico regime valido per tutti".

Valutare rischio ischemico ed emorragico
"Prima di decidere il tipo e la durata della DAPT, si dovrebbe sempre valutare il rischio di sanguinamento del paziente. Questo rischio e il rischio ischemico dovrebbero essere gli elementi più importanti quando bisogna decidere per quanto tempo trattare il paziente" ha detto il cardiologo, aggiungendo che bisognerebbe anche fare una "rivalutazione dinamica" di entrambi i rischi. "La valutazione non può essere statica. Non si può valutare il paziente una volta sola. Bisogna continuare a seguirlo e, se si nota che il rischio ischemico e/o di sanguinamento cambia nel tempo, bisogna cambiare la prescrizione di conseguenza".

Per attuare quest’approccio personalizzato, sostiene la task force, si può prendere in considerazione l’utilizzo di strumenti di valutazione del rischio, tra cui gli score DAPT e PRECISE-DAPT per la valutazione del rischio di sanguinamento in corso di DAPT.

Il nuovo documento, in cui gli esperti hanno fatto una revisione delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di diverse società scientifiche e le hanno riunite in un testo unico, è stato concepito per affrontare le aree di incertezza, in primis la giusta durata della DAPT, oggetto di molti studi nell’ambito della medicina cardiovascolare e di un ampio dibattito in anni recenti.

"La DAPT è un argomento controverso su cui sono state prodotte molte evidenze contrastanti", ha detto Valgimigli. "Ciò ha portato a una grande incertezza nella comunità medica, in particolare per quanto riguarda la durata ottimale della DAPT dopo l’impianto di uno stent coronarico".

Un aspetto unico di questo aggiornamento è che è corredato da un articolo di commento in cui si descrivono 18 scenari clinici comuni e si spiega cosa si dovrebbe fare in questi casi sulla base delle nuove indicazioni ESC.

"Abbiamo cercato di dare consigli pratici ai professionisti e penso che la comunità dei cardiologi potrà veramente approfittarne" ha affermato il cardiologo.

Durata della DAPT nei pazienti con CAD
Uno dei principali elementi di novità del nuovo documento ESC riguarda, appunto, la durata della DAPT. In questo senso, ha spiegato ai nostri microfoni Davide Capodanno, cardiologo interventista dell’Università di Catania, “questo aggiornamento introduce un grosso elemento di flessibilità: bisogna abbandonare il concetto di durata fissa della DAPT e invece adattare la durata di default – 6 mesi per i pazienti con coronaropatia (CAD) stabile e 12 mesi per quelli con sindrome coronarica acuta (SCA) – alle circostanze cliniche individuali e procedurali del paziente”.

Per esempio, ha precisato il professore, “nei pazienti con CAD stabile si può anche accorciare la doppia antiaggregazione in coloro che hanno un alto rischio di sanguinamento, e in alcuni casi si propone addirittura una DAPT di soli 3 mesi associata a determinati stent, oppure si può proseguire oltre i 6 mesi se tale rischio è basso, cioè se il paziente non ha sanguinato negli ultimi 6 mesi e può avere invece un vantaggio di natura anti-ischemica”.

Secondo le nuove linee guida, la durata della DAPT nei pazienti affetti da CAD sottoposti a PCI indipendentemente dal tipo di stent impiantato, dovrebbe essere compresa fra 1 e 6 mesi a seconda del rischio di emorragia, ma si può prendere in considerazione una DAPT più lunga nei pazienti il cui rischio ischemico è superiore al rischio di sanguinamento.

Invece, si legge nel documento, non ci sono dati sufficienti per raccomandare la DAPT nei pazienti affetti da CAD sottoposti a by-pass.

Durata della DAPT nei pazienti con SCA
 “Nei pazienti con SCA, la durata minima di default della DAPT sarebbe di 12 mesi, perché in questo caso il rischio protrombotico è più alto rispetto a quello insito nella CAD; nello stesso tempo, tuttavia, applicando il buon giudizio clinico, in questo gruppo si possono selezionare anche persone candidabile a una DAPT più breve o, all’opposto, persone - per esempio quelle con caratteristiche simili a quelle dei soggetti inclusi nello studio PEGASUS - candidabili, eventualmente dopo un pregresso infarto, a un prolungamento della doppia antiaggregazione fino anche a 36 mesi” ha aggiunto Capodanno.

Il punto più controverso riguarda la necessità di un regime prolungato di DAPT (oltre i 12 mesi) nei pazienti con SCA sottoposti a una PCI. "Questo è un setting in cui bisogna pensarci due volte su come massimizzare i benefici rispetto ai rischi" ha rimarcato Valgimigli. "Il messaggio più nuovo e importante è che la DAPT è un regime utilizzato per curare un paziente, non lo stent impiantato in precedenza. Questo è un punto cruciale e i cardiologi devono adattarsi a questo nuovo paradigma di trattamento".

Dunque, secondo la task force ESC, per i pazienti affetti da SCA la durata della DAPT di default dovrebbe essere di 12 mesi, indipendentemente dalla strategia di rivascolarizzazione (terapia medica, PCI o bypass aorto-coronarico, CABG), mentre nei pazienti ad alto rischio di emorragia dovrebbe essere di 6 mesi. Invece, si può prendere in considerazione una terapia di durata superiore all’anno nei pazienti con SCA che hanno tollerato la DAPT senza complicazioni emorragiche.

Inoltre, in quello che Valgimigli ha definito "un importante cambiamento del paradigma", la durata e anche il tipo e della DAPT non devono più essere decise in base al tipo di stent impiantato, ma al rapporto tra rischio ischemico ed emorragico. Inoltre, la necessità di una DAPT breve non giustifica più l’utilizzo di uno stent metallico nudo anziché uno medicato di nuova generazione. “Se un paziente può fare solo 30 giorni di DAPT perché ha un rischio troppo alto di emorragia, ciò non giustifica l'uso di stent metallici tradizionali, che si sono dimostrati inferiori agli stent medicati” ha rimarcato il cardiologo. "Quindi, secondo le nostre linee guida, non ci sono più giustificazioni per impiantare uno stent metallico nudo. Probabilmente l'unica rimasta è il denaro, il costo del device, e nient'altro".
Passaggio da un antiaggregante a un altro

Un altro aspetto su cui l’aggiornamento ESC presenta elementi nuovi riguarda il passaggio (switch) da un antiaggregante all’altro.
“Nella pratica clinica ci sono svariate circostanze in cui questo può essere utile: alcuni pazienti, per esempio, arrivano già in terapia con un determinato farmaco, ma a un certo punto sviluppano effetti collaterali oppure il clinico non crede nella terapia che stanno facendo, per cui ritiene opportuno passare a un altro agente, più potente oppure meno potente o con una migliore tollerabilità” ha spiegato Capodanno

“Nella pratica ciò configura un problema: come effettuare questo switch? Farlo con la dose di carico o con quella di mantenimento, per esempio? Senza entrare in dettaglio, le nuove linee guida contengono algoritmi visivi molto pratici su questo aspetto che rappresentano una novità rispetto al passato e consentono al clinico di ricordare facilmente quali sono le regole da applicare per fare la scelta giusta in merito alla terapia più appropriata per ciascun paziente” ha detto il cardiologo.

Pretrattamento, sì o no?
Una questione piuttosto controversa, su cui il nuovo documento prende posizione, è quella del pretrattamento, cioè dell’utilità o meno di somministrare gli antiaggreganti al paziente prima di una procedura interventistica come la PCI.

“Quando va fatto il pretrattamento? Già in ambulanza? Nell’ospedale spoke rispetto all’ospedale di riferimento? Già nella sala di emodinamica? Questo tema è oggetto da tempo di grosso dibattito. Le raccomandazioni sono via via cambiate, a volte favorendo il pretrattamento, a volte scoraggiandolo” ha ricordato Capodanno.

“Ora, questo aggiornamento delle linee guida ESC va nella direzione di sostenere l’opportunità del pretrattamento, che viene indicato un po’ in tutti i contesti della coronaropatia: dai pazienti con CAD stabile che devono fare la PCI, fino ai pazienti con SCA senza sopraslivellamento del tratto ST e a quelli con STEMI. In sintesi, il documento aggiornato pone l’enfasi sul pretrattare piuttosto che sul non farlo” ha spiegato l’esperto italiano.
Inoltre, le raccomandazioni relative al pretrattamento sono state modificate, con indicazioni più dettagliate sulla scelta tra specifici inibitori di P2Y12.

Consigli dettagliati su svariati scenari
L'aggiornamento ESC copre davvero moltissimi aspetti: oltre agli strumenti di stratificazione del rischio sopra ricordati, si va dalla terapia da impostare dopo una PCI, nei pazienti sottoposti a chirurgia cardiaca e in quelli con SCA gestita con una terapia medica, al trattamento dei pazienti in cui c’è indicazione all’anticoagulazione orale, alla gestione della chirurgia non cardiaca elettiva in pazienti in trattamento con la DAPT, fino a cosa fare in popolazioni specifiche, tra cui le donne, i pazienti diabetici e coloro che hanno complicanze emorragiche durante il trattamento.

Ora è consigliabile utilizzare in modo più liberale gli inibitori della pompa protonica per attenuare il rischio di emorragie, piuttosto che limitare le raccomandazioni d’uso ai pazienti con alto rischio di emorragie gastrointestinali.

Il tempo necessario di attesa dopo la PCI prima di prendere in considerazione una chirurgia non cardiaca elettiva che richieda la sospensione degli inibitori di P2Y12 è stato abbassato ad almeno un mese (prima era almeno 6 mesi).

Nei pazienti sottoposti a chirurgia non cardiaca elettiva o a chirurgia cardiaca non di emergenza, va presa in considerazione la sospensione di ticagrelor almeno 3 giorni prima dell'intervento chirurgico (erano 5 nelle indicazioni precedenti), mentre i tempi di sospensione raccomandati restano pari a 5 giorni per clopidogrel e 7 per prasugrel.

Quale inibitore di P2Y12?
Clopidogrel è l'inibitore di P2Y12 di default raccomandato nei pazienti con CAD stabile sottoposti a PCI, nei pazienti in cui è indicata l'anticoagulazione orale e nei pazienti con SCA in cui sono controindicati ticagrelor o prasugrel; questi ultimi sono, invece, raccomandati nei pazienti con SCA a meno che non presentino controindicazioni specifiche all’uso di questi agenti. La decisione su quando iniziare un inibitore di P2Y12 dipende sia dal farmaco specifico sia dalla specifica malattia (CAD stabile o SCA).

Per la prima volta, si raccomanda ticagrelor rispetto agli altri inibitori di P2Y12 nei pazienti con infarto miocardico e alto rischio ischemico che hanno tollerato la DAPT senza complicazioni emorragiche. In quel gruppo, ticagrelor per più di 12 mesi assieme all'aspirina “potrebbe essere preferibile a clopidogrel o prasugrel”, dicono gli esperti ESC.

Aggiunta della DAPT all’anticoagulante orale
La guida apre poi la porta a una doppia terapia antitrombotica nei pazienti con indicazione all’anticoagulazione orale, affermando che il trattamento con clopidogrel e un anticoagulante orale dovrebbe essere preso in considerazione come alternativa a un mese di terapia tripla (DAPT più anticoagulazione orale) comprendente l'aspirina nei pazienti con un rischio emorragico superiore al rischio ischemico.

L'aggiunta di DAPT alla terapia anticoagulante orale, ricordano gli esperti ESC, aumenta il rischio di complicanze emorragiche da due a tre volte. L'indicazione all'anticoagulazione orale deve, quindi, essere rivalutata periodicamente e il trattamento va continuato solo se vi è un’indicazione significativa come la presenza di fibrillazione atriale, di una protesi valvolare o di una storia recente di trombosi venosa profonda ricorrente o embolia polmonare. La terapia tripla (DAPT più anticoagulazione orale) deve avere una durata limitata a 6 mesi oppure essere interrotta dopo la dimissione dall’ospedale a seconda del rischio ischemico e di quello di sanguinamento.

Infine, sono stati introdotti algoritmi visivi per aiutare i medici a selezionare la durata appropriata della DAPT in vari scenari, a passare da un inibitore orali di P2Y12 a un altro, a gestire i pazienti con indicazione all’anticoagulazione orale che devono sottoporsi alla PCI, a interrompere gli inibitori di P2Y12 dopo la PCI per una chirurgia non cardiaca elettiva e, infine, a gestire il sanguinamento durante la DAPT con o senza l’anticoagulazione orale.

Alessandra Terzaghi

M. Valgimigli, et al. 2017 ESC focused update on dual antiplatelet therapy in coronary artery disease developed in collaboration with EACTS. Eur Heart J. 2017; doi: 10.1093/eurheartj/ehx419.
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