Eradicazione dell'epatite C: servono screening, linkage to care e terapie con poche interazioni
Per l'eradicazione dell'epatite C bisogna insistere sullo screening sopratutto di popolazioni particolari per raggiungere il sommerso, avviare precocemente le cure che oltre a essere veloci devono anche garantire poche interazioni farmacologiche considerata la popolazione sempre più anziana e quindi con comorbidità. E' quanto evidenziato dalla dott.ssa Loreta Kondili del Centro Nazionale per la Salute Globale dell'Istituto Superiore di Sanità e dal prof. Andrea Calcagno dell'Università degli Studi di Torino, durante il congresso SIMIT2021.
Importanza dello screening
Nella popolazione con HCV, una quota di popolazione è in cura, ma sussiste ancora oggi una fetta di popolazione costituita da asintomatici, da sottoporre a screening per scoprire il sommerso.
“Lo screening dell’epatite C serve al fine di perseguire l’obiettivo dell’eliminazione” ha dichiarato Kondili. “Grazie ai farmaci ad azione antivirale, abbiamo la possibilità di eliminare il virus dell'epatite C e questo risultato si può ottenere solo attraverso lo screening”.
Gli studi sulla popolazione consentono di capire il rischio di trasmissione ma, focalizzandosi solo sui fattori di rischio, spesso questi non consentono di diagnosticare il sommerso, identificare il targeting delle popolazioni a rischio, come i PWID (persone che abusano di sostanze) e i detenuti.
Possono essere invece utilizzati dei modelli matematici per avere stime epidemiologiche, in quanto non esistono studi di prevalenza, non solo in Italia, ma anche nel mondo. I modelli matematici si basano sulla storia naturale della malattia e fanno affidamento sui dati precedenti e sui dati di terapia real life; queste stime non possono essere quindi considerate valori assoluti ma un orientamento del percorso.
Le considerazioni epidemiologiche per lo screening dell'epatite C in Italia
Si sono verificate due ondate di infezione, la prima negli anni 50-60, correlata a infezioni nosocomiali e all’utilizzo delle trasfusioni di sangue, con età media di circa 65 anni. Queste persone molto probabilmente sono già state diagnosticate e trattate. Una parte però di questa popolazione presenta ancora l'infezione e di conseguenza occorre sicuramente prestare attenzione alla diagnosi e ai fattori di rischio per valutare la progressione del danno epatico.
Una seconda ondata epidemica riconosciuta è legata all'uso di stupefacenti, alla pratica dei tatuaggi a rischio, a procedure nosocomiali e risale agli anni compresi tra il 1980 e gli anni 2000. Anche in questo caso si osserva una vera popolazione di asintomatici, dove l'età media è di circa 46 anni.
Le stime parlano di circa 280 mila pazienti in stadio di fibrosi F0-F3 e quasi 100.000 pazienti in F4; lo screening deve cercare di identificare questi 280.000 pazienti. Nel caso della progressione ad F4 l’identificazione si basa sulla patologia epatica avanzata.
Il picco di prevalenza è sulle persone di 50 anni e due terzi degli individui asintomatici ha un’età superiore ai 46 anni.
Effettuando valutazioni di studi di costo/efficacia, si ricava che la strategia più sostenibile è iniziare lo screening nelle popolazioni nate tra il 1968 e il 1987, per poi passare alla popolazione dal 1948 al 1967; è la strategia più sostenibile per costo/efficacia.
Non ancora diagnosticati, o almeno non indirizzati verso la cura, sono circa 100.000 pazienti con un'età tra i 50 e i 70 anni. La prevalenza più alta risulta essere nei pazienti oltre 80 anni, nella popolazione che presenta transaminasi alterate e in quelli con una storia di abuso di stupefacenti per via iniettiva. In un altro studio, condotto a Napoli, è stato effettuato uno screening al momento dell’ammissione nella Liver Unit ospedaliera e sono stati identificati 91 casi positivi, la metà dei quali nati antecedentemente il 1968 e il 10% tra il 1968 e il 1989. Il 33% non aveva mai avuto una diagnosi di epatite C nonostante fosse nota una malattia epatica.
Si sono ottenuti dati paragonabili, con una percentuale di pazienti intorno al 30% che risultavano non presi in carico da centri di cura, in uno studio condotto a Reggio Emilia; analoghi risultati sono risultati da uno studio condotto da 44 Medici di Medicina Generale, che hanno identificato come il 40-50% dei pazienti con danno epatico che non erano mai stati sottoposti a uno screening per epatite C.
Sono necessari fondi per sottoporre a screening tutta la coorte di nascita 1948-1988 per eliminare l’HCV e, soprattutto, per identificare le persone con fattori di rischio e potenziale danno epatico da sottoporre a trattamento, a maggior ragione nel caso di persone con comorbilità, per prevenire la progressione del danno epatico ed extraepatico HCV correlato.
È fondamentale, una volta identificato il paziente, il linkage to care, così come è fondamentale aumentare la sensibilizzazione e la formazione del personale.
Potrebbe essere utile unificare screening di Sar-Cov-2 e HCV.
Terapia dell’HCV, l’importanza della gestione delle interazioni
Moltissimi farmaci utilizzati nella terapia dell’HCV sono inibitori del metabolismo o del trasporto di altri farmaci. La maggior parte di loro è un inibitore di P-gp, BCRP, OATP1B1 e OATP1B3, trasportatori molto diffusi a livello epatico, nei tessuti periferici o a livello del sistema nervoso centrale, con l'eccezione di ledipasvir, che è un inibitore dei citocromi e delle UGT intestinali. Sono di conseguenza possibili frequenti interazioni.
Le interazioni hanno un significato clinico in quanto si possono associare anche a un rischio di fallimento terapeutico.
"Cercare di valutarle a priori è difficoltoso, in quanto l’effetto è difficilmente prevedibile per la dipendenza dalle concentrazioni dei farmaci, dalla affinità del substrato e dell’inibitore e dall’emivita dei farmaci. Ne consegue che le informazioni a disposizione sono poche e spesso provengono da studi di simulazione" ha evidenziato Calcagno.
Tutte le linee guida dichiarano la necessità di valutare le interazioni; uno strumento utile nella gestione pratica del problema interazioni è l’University of Liverpool DDI database, che fornisce informazioni sull’effetto dell’interazione, con messaggi quali “aumento della concentrazione del farmaco di una determinata percentuale”, fornisce consigli operativi per la gestione e suggerisce un’alternativa terapeutica nel caso l’associazione sia controindicata.
Fornisce anche un codice colore che consente di identificare il rischio connesso all’interazione stessa (verde: non si sospettano interazioni; giallo: potenziale rischio di deboli interazioni, che non richiedono intervento; arancione:interazioni potenziali che richiedono un aggiustamento del dosaggio o un monitoraggio addizionale; rosso: associazione controindicata, i due farmaci non devono essere co-somministrati).
Il rischio connesso alle interazioni è correlato alla finestra terapeutica; esistono farmaci dove un aumento delle concentrazioni anche significativo non pone il rischio di fallimento o di sovra-esposizione, e quindi di eventi avversi, per i quali la somministrazione di un farmaco in grado di modificarne la concentrazione non è pericoloso; per altri farmaci, invece, questo indice è molto più stretto e quindi un aumento di concentrazione, anche di pochi punti percentuali, potrebbe essere significativo.
I farmaci usati per la terapia dell’HCV in generale hanno una finestra terapeutica abbastanza ampia; lo dimostrano le interazioni con gli inibitori di pompa protonica, che causano spesso alterazioni delle concentrazioni dei farmaci dal 30 al 50%; i dati sul reale impatto clinico di questa riduzione sono infatti contrastanti. Sono quindi farmaci tendenzialmente maneggevoli.
Sono a tutti noti i principali fattori di rischio per l’infezione da HCV: l’età anagrafica anziana, la presenza di disturbi mentali e l’abuso di stupefacenti. Queste persone spesso sono in terapia farmacologica per diverse patologie e sono di conseguenza soggetti al rischio di specifiche interazioni.
I pazienti anziani, infatti, presentano spesso comorbilità importanti, soprattutto cardiovascolari; questi pazienti sono di conseguenza spesso in terapia con beta bloccanti, antiaritmici e calcio antagonisti, tutti farmaci che possono causare interazioni.
Il gruppo di pazienti con malattia mentale è di frequente in terapia con ansiolitici, antidepressivi e qualche volta anche antipsicotici; anche queste classi spesso presentano il rischio di interazioni farmacologiche.
Se si valuta come si è modificata la situazione nel corso degli anni, si può osservare che sono aumentate nel tempo le percentuali di pazienti che presentano comorbilità con conseguente politerapia, ma è aumentata anche la percentuale di interazioni potenzialmente rilevanti dal punto di vista clinico; nel caso di pazienti che presentano terapie complesse, con oltre 8 farmaci, la possibilità di dover affrontare interazioni potenzialmente pericolose può arrivare all’80%.
Uno studio italiano, condotto su oltre 4.000 pazienti HCV positivi in terapia, evidenzia una prevalenza significativa di pazienti che assumono almeno due farmaci concomitanti. In questo caso il rischio di interazioni classificate significative aumenta con il numero di farmaci utilizzati. Se il paziente assume almeno 2 farmaci per le comorbilità, si arriva a un rischio quasi del 40% di interazioni farmacologiche con il regime Glecaprevir/Pibrentasvir rispetto al 14% del regime Sofosbuvir/Velpatasvir.
L’identificazione e il trattamento di questi pazienti pone quindi la sfida nella gestione di una terapia farmacologica sempre più complessa.
Uno studio multicentrico, condotto in Scozia su 180 pazienti, ha evidenziato le interazioni potenziali a seconda del regime terapeutico utilizzato per l’HCV in pazienti in terapia antipsicotica con quetiapina, aripiprazolo o paliperidone. Se il regime G/P presentava una serie di interazioni che richiedevano quantomeno un monitoraggio clinico più stringente, oppure modifiche della dose o il monitoraggio ECG, l’utilizzo del regime con Sof/Vel non presentava interazioni significative.
È quindi fondamentale il lavoro congiunto dei diversi specialisti per identificare quale sia la migliore combinazione di terapie in grado di soddisfare entrambi gli specialisti e di ridurre al minimo il rischio per il paziente. Occorre inoltre sempre considerare che, a seguito della prescrizione iniziale, si possono verificare condizioni cliniche nuove che possono non essere riconosciute come effetti collaterali e che possono portare a nuove prescrizioni, con conseguenti possibili ulteriori interazioni, soprattutto nei pazienti anziani e fragili.
Conclusioni
Sottoporre a screening la popolazione aumenta la possibilità di identificare pazienti anziani, che presentano comorbilità; questo aumenta la possibilità che il medico si trovi a dover affrontare il problema delle interazioni nei suoi pazienti.
La scelta del regime da utilizzare comporta per il clinico anche la necessità di valutare i farmaci concomitanti somministrati al paziente ed effettuare una scelta in relazione anche alle terapie concomitanti, opzione attualmente possibile in quanto sono a disposizione regimi pan-genotipici efficaci e ben tollerati.
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