Il trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche si è dimostrato efficace nell’indurre una remissione di malattia a distanza di tre anni in assenza di alcun altro trattamento di mantenimento in pazienti affetti da Sclerosi Multipla recidivante remittente (RR SM).  Si è inoltre osservato un lieve miglioramento delle funzioni neurologiche. Non si sono osservati eventi avversi fatali nel breve termine anche se eventi avversi seri si sono verificati nel lungo termine tra cui due decessi.

Queste sono le conclusioni parziali (interim report a 3 anni di uno studio di 5 anni) apparse on line su Lancet Neurology.

«Si tratta di un trial assolutamente importante, perché è rilevante raccogliere dati sull’efficacia e la sicurezza del trapianto in pazienti con forme pure a ricadute e remissione, un ambito nel quale ci sono ancora pochi studi» sottolinea Marta Radaelli, neurologo presso l’Ospedale San Raffaele di Milano ed esperta di trapianto nella sclerosi multipla (SM). «Questo studio» commenta «nel complesso è positivo perché conferma che il trapianto funziona nei pazienti con malattia attiva. Il dato più rilevante è la progression free survival, pari al 90% a 3 anni: un valore elevato e che non raggiungiamo con i farmaci. Tuttavia si sono registrati anche molti eventi avversi e la mortalità risulta abbastanza elevata per una malattia come la SM in pazienti con livelli moderati di disabilità».

Dopo un primo giudizio generale, Radaelli entra nella disamina dettagliata dello studio. «Questo studio di fase 2 è stato condotto da Richard A. Nash [del Colorado Blood Cancer Institute di Denver (USA)] che ha condotto altri studi sul trapianto nella SM. Sono stati inclusi pazienti con forme a ricadute e remissione perché le linee guida più attuali effettivamente dimostrano una migliore efficacia del trapianto in questo tipo di pazienti».

«Sono stati arruolati 25 pazienti» prosegue il neurologo «tutti trattati nello stesso centro, quindi con metodica uguale per ognuno (e questo è uno dei vari punti a favore dello studio). I soggetti presentano un EDSS (Expanded Disability Status Scale) abbastanza basso e sono stati inclusi pazienti ancora deambulanti. Le diverse caratteristiche dei pazienti tuttavia non sono presenti in dettaglio. Inoltre manca il grado di attività alla risonanza magnetica (RM) perché come criteri di inclusione rientravano lesioni tipiche per SM ma non era necessario presentare lesioni nuove o captanti gadolinio e questo rende difficile capire quanti pazienti avessero realmente una malattia in fase attiva al momento dell’inclusione. Nei criteri di inclusione si è tenuto conto solo delle ricadute cliniche».

«Si tratta di un interim analisi a 3 anni. Lo studio dura 5 anni, quindi i risultati sono a metà» ribadisce il neurologo, che prosegue: «l’èquipe ha usato cellule autologhe ematopoietiche. Per quanto riguarda le procedure gli sperimentatori hanno usato una mobilizzazione da sangue periferico, utilizzata dalla maggior parte degli studi e consigliata dalle linee guida attuali. È stato usato solo il filgrastim, fattore di crescita (in quantità forse maggiore rispetto a quanto riportato in letteratura), che può indurre ricadute: per questo motivo è stato somministrato cortisone. Non è stata utilizzata ciclofosfamide che invece è suggerita dalle linee guida durante la mobilizzazione per evitare il rischio di riattivazione della malattia».

«Come schema di trattamento» continua Radaelli «hanno usato il BEAM che è lo schema ad attività intermedia più usato anche a livello europeo e consigliato nelle linee guida. Si tratta di una chemioterapia composta da carmustina, etoposide, citarabina e melphalan seguita dalla somministrazione di siero antilinfocitario».
La specialista fa un appunto al disegno dello studio. «Secondo me sono state utilizzate visite di controllo troppo distanti, nel senso che sono previste visite cliniche ogni sei mesi con contatti telefonici intermedi: controlli un po’ troppo diradati per una procedura come il trapianto. Corretta invece la scelta di usare come RM basale quella a 2 mesi per vedere il reale effetto del trapianto, quindi non utilizzando un esame eseguito immediatamente dopo il trapianto il cui risultato poteva essere inficiato dall’uso di cortisone nei giorni precedenti o da immunosoppressori. Anche il campione è consono con il tipo di trattamento sia per quanto riguarda l’età media che la durata di malattia».

«Si sono avuti molti eventi avversi nella fase di mobilizzazione, una procedura normalmente ben tollerata. In particolare si sono rilevate soprattutto trombosi, non reperibili in altri studi, e non è spiegato se i pazienti avevano fattori di rischio in tal senso» afferma Radaelli. «Per quanto riguarda gli eventi avversi, mettendo insieme tutti quelli del trapianto, ne sono risultati 130: tanti in 27 pazienti, specie perché tutti di grado 3 e 4. In realtà la maggior parte sono infettivi (attesi), oltre alla citopenia. In particolare non viene segnalata se la citopenia è quella normalmente attesa dopo la procedura del trapianto».

«C’è poi stato un caso di suicidio e uno di depressione da mettere in risalto perché la procedura del trapianto è “stressante” dal punto di vista psicologico per il paziente in quanto prevede una lunga ospedalizzazione. Inoltre 2 pazienti sono deceduti: l’andamento della mortalità è dunque dell’8%, un valore alto per il trapianto dato che studi recenti del registro europeo si attestano sull’1,3%. Forse ciò potrebbe essere legato all’eccessiva distanza tra le visite che ha impedito di prendere per tempo eventuali eventi avversi».

«In ogni caso, l’efficacia clinica del 60% in pazienti – che, ricordiamo, non sono responsivi a precedenti trattamenti - è un buon valore anche se, per capire il reale valore di tale risultato, andrebbero forse specificati i trattamenti utilizzati prima del trapianto» puntualizza Radaelli «e sono ovviamente ottimi i risultati ottenuti con la RM» sostiene il neurologo. Più che altro andrebbe fatto un confronto con alemtuzumab e con natalizumab: una procedura complessa e pesante come il trapianto va valutata con un farmaco che si dà una volta al mese o una volta all’anno nel caso di alemtuzumab, ha una tossicità inferiore e dà risultati simili».

«Il trapianto ha il vantaggio di indurre un cambiamento del sistema immunitario che permette di avere una prolungata efficacia nel tempo ma sicuramente non rappresenta la cura della SM. Ci sono studi che portano a un reset completo del sistema immunitario ma con schemi di trattamento più forti e sono a livello sperimentale» commenta. «Nei primi studi degli anni Novanta si usavano gli schemi di trattamento usati per i tumori ematologici, quindi molto più intensi. Poi dai regimi ad alta intensità non necessari nella SM in cui non vi sono cellule tumorali da uccidere si è passati a farmaci meno tossici e quindi con meno effetti collaterali. Inoltre, all’inizio nei protocolli erano inseriti molte forme primariamente e secondariamente progressive. Ora, con l’esperienza accumulata, si è capito che il trapianto funziona nei pazienti più giovani, quando la malattia è ancora in una fase attiva e nelle forme a ricaduta e remissione, e l’attuale studio si pone in questo nuovo ambito».

Questa strategia terapeutica ha dunque un futuro? «Il trapianto è una  terapia che può cambiare il decorso nei pazienti attivi, in particolare nei pazienti con forme maligne. Purtroppo non è un’alternativa nei pazienti con forme puramente progressive».

Arturo Zenorini
Nash RA, Hutton GJ, Racke MK, et al. High-Dose Immunosuppressive Therapy and AutologousHematopoietic Cell Transplantation for Relapsing-Remitting Multiple Sclerosis (HALT-MS): A 3-Year Interim Report. JAMA Neurol, 2014 Dec 29. [Epub ahead of print]
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