L’anti-melanoma vemurafenib potrebbe essere utile anche per il trattamento di una neoplasia ematologica, la leucemia a cellule capellute (rara forma di leucemia caratterizzata dalla presenza di linfociti B anomali nel midollo osseo, nella milza e nel sangue periferico) recidivante o refrattaria. A suggerirlo sono due studi di fase II condotti in parallelo, uno in Italia e l’altro negli Stati Uniti, in cui si sono osservate alte percentuali di risposta nei pazienti trattati col farmaco, un inibitore di BRAF attualmente approvato per il trattamento del melanoma avanzato.

I risultati dei due trial sono stati da poco pubblicati online in un unico articolo sul New England Journal of Medicine e sono i primi usciti sull’impiego di un farmaco mirato nella leucemia a cellule capellute. I dati erano stati anticipati al congresso della European Hematology Association nel 2014 e nello stesso anno a quello dell’American Society of Hematology.

Nel complesso, più del 95% dei pazienti ha risposto al farmaco e il 30-40% ha raggiunto una remissione completa. Risposte ritenute sorprendenti, tanto più che al momento dell’arruolamento molti erano già stati sottoposti a varie linee di terapia, manifestando una malattia particolarmente aggressiva

Nel 10-15% dei casi, vemurafenib ha indotto tumori cutanei secondari, che avevano, tuttavia, un basso potenziale di malignità e sono stati eliminati con una semplice escissione, senza richiedere altri trattamenti.

"Vemurafenib è una nuovo farmaco mirato, non mielotossico e molto attivo che può essere somministrato per via orale a pazienti con leucemia a cellule capellute che non rispondono o ricadono dopo la chemioterapia standard con gli analoghi delle purine cladribina e pentostatina, e che possono avere una scarsa riserva midollare a causa di cicli ripetuti e molteplici di analoghi delle purine" ha commentato uno degli autori principali del lavoro, Brunangelo Falini, direttore dell'Istituto di Ematologia dell'Università degli Studi di Perugia.

Nell’introduzione, Falini e i colleghi spiegano che sebbene l’80% circa degli individui colpiti da una leucemia linfatica acuta risponda in modo completo e duraturo a un primo ciclo di terapia standard, una quota compresa tra il 20% e il 50% finisce per ricadere e risponde sempre peggio agli analoghi delle purine, che possono anche causare immunosoppressione e mielotossicità cumulativa.

Sebbene la leucemia a cellule capellute sia una malattia relativamente rara, i pazienti che ricadono hanno poche opzioni terapeutiche a disposizione. Sono quindi necessari nuovi approcci terapeutici.

La ricerca italo-americana ha preso le mosse da uno studio precedente di Falini e il suo gruppo (pubblicato nel 2011, sempre sul Nejm), nel quale si è visto che quasi tutti i pazienti con leucemia a cellule capellute sono portatori della mutazione di BRAF V600E, che è alla base della patogenesi di questa neoplasia.

Gli autori italiani hanno anche scoperto che, come in altri tumori con BRAF mutato, nella leucemia a cellule capellute la mutazione V600E attiva il pathway della MAP chinasi e ulteriori studi in vitro hanno suggerito che gli inibitori di BRAF, come vemurafenib, possano indurre l’apoptosi delle cellule capellute e che la mutazione di BRAF V600E sia un potenziale target terapeutico in questa neoplasia ematologica.

“Il fatto di aver compreso i meccanismi molecolari che causano la leucemia a cellule capellute ci ha permesso di aprire nuove prospettive sul fronte diagnostico e terapeutico. Ne è riprova il fatto che, a soli 4 anni da questa scoperta di base, è già disponibile un test molecolare specifico per la diagnosi di leucemia a cellule capellute e una terapia efficace con un farmaco ‘intelligente’ come il vemurafenib” ha dichiarato Falini.

Per verificare la correttezza dei segnali emersi negli studi preliminari, gli sperimentatori hanno arruolato pazienti con leucemia a cellule capellute recidivata o refrattaria e li hanno trattati con vemurafenib alla dose standard utilizzata nel melanoma (960 mg due volte al giorno). Nello studio italiano, i pazienti sono stati trattati con l’inibitore per una mediana di 16 settimane, mentre in quello americano la durata mediana della terapia è stata di 18 settimane. Il trial ‘made in Italy’ ha coinvolto 28 pazienti, che sono stati seguiti per una mediana di quasi 2 anni, quello effettuato negli Stati Uniti è tuttora in corso e sono stati finora arruolati 26 pazienti dei 36 previsti.

Nel trial italiano, dopo una mediana di 8 settimane la percentuale di risposta complessiva è stata del 96% (hanno risposto 25 pazienti sui 26 valutabili), mentre in quello dei colleghi americani, dopo una mediana di 12 settimane, è stata del 100% (24 pazienti su 24). Le percentuali di risposta completa sono risultate rispettivamente del 35% (9 pazienti su 26) e 42% (10 pazienti su 24).

Dopo un follow-up mediano di 23 mesi, i pazienti nello studio italiano che avevano avuto una risposta completa hanno mostrato una sopravvivenza libera da recidive (RFS) mediana pari a 19 mesi e quelli che avevano avuto una risposta parziale una sopravvivenza libera da recidive mediana di 6 mesi (HR di recidiva 0,26; IC al 95% 0,10-0,68; P = 0,006).

Nello studio Usa, dopo un anno di follow-up, la sopravvivenza libera da progressione (PFS) risultava del 73% e la sopravvivenza globale (OS) del 91%, mentre l’incidenza cumulativa di recidiva un anno dopo la risposta iniziale era del 27%.

La maggior parte degli eventi avversi correlati al farmaco sono stati reversibili e di grado 1 o 2. Quelli che più comunemente hanno reso necessaria una riduzione della dose sono stati rash, artralgia o artrite. Sette dei 50 pazienti hanno sviluppato tumori della pelle secondari, trattati con una semplice escissione, senza dover ridurre la dose di vemurafenib.

Circa la metà dei pazienti valutabili dello studio italiano avevano ancora cellule leucemiche ERK-positive persistenti nel midollo osseo dopo la fine del trattamento. Questi pazienti avevano una malattia residua maggiore e hanno mostrato una PFS inferiore rispetto a quelli senza cellule persistenti, il che, osservano gli autori, suggerisce l’attivazione di un meccanismo di resistenza nel primo gruppo.

Vemurafenib non è risultato curativo al 100% perché in alcuni pazienti erano ancora rilevabili alcune cellule leucemiche alla fine della terapia e lo studio ha dimostrato che il pathway della MAP-chinasi, in cui si trova BRAF, in questi casi è ancora attivo. Questo potrebbe spiegare perché l’inibitore non elimina completamente tutte le cellule capellute in tutti i pazienti.

La persistenza, in alcuni casi, di cellule leucemiche nel midollo indica la necessità di una terapia aggiuntiva per migliorare le percentuali di risposta. Una via per raggiungere l’obiettivo potrebbe essere quella di inibire in modo più completo il pathway di BRAF con un trattamento più lungo. Un metodo più razionale potrebbe essere quello di combinare un inibitore di BRAF con un altro farmaco mirato attivo sullo stesso pathway, come un inibitore di MEK, oppure si potrebbe usare un anticorpo monoclonale diretto contro l’antigene CD20, altamente espresso dalle cellule della leucemia a cellula capellute. Una terapia combinata potrebbe essere più efficace e meno tossica.

Altre domande a cui bisognerà dare risposta riguardano la durata ottimale del trattamento e la giusta dose del farmaco, anche se sembra che i pazienti con leucemia a cellule capellute possono essere più sensibili a dosi di vemurafenib inferiori a quella standard.

Inoltre, scrivono gli autori nella discussione, varrebbe la pena di testare l’altro inibitore di BRAF, dabrafenib, perché studi in vitro del gruppo italiano e alcuni casi clinici hanno suggerito che anch’esso potrebbe essere efficace nella leucemia a cellule capellute recidivata o refrattaria.

Alessandra Terzaghi

E. Tiacci, et al. Targeting Mutant BRAF in Relapsed or Refractory Hairy-Cell Leukemia. New Engl J Med. 2015; doi: 10.1056/NEJMoa1506583
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