L’aggiunta dell’inibitore orale della tirosin chinasi di Bruton (BTK) ibrutinib a bendamustina e rituximab migliora gli outcome senza ridurre in modo significativo la sicurezza nei pazienti con leucemia cronica linfatica o piccolo linfoma linfocitico. Lo rivelano nuovi dati dello studio di fase III HELIOS, presentati di recente al meeting sulle neoplasie ematologiche dell’American Society of Hematology, a Chicago.

I risultati ad interim di efficacia dello studio HELIOS, un trial multicentrico internazionale, randomizzato, in doppio cieco, e controllato con placebo sono stati presentati nel giugno scorso al congresso annuale dell’American Society of Clinical Oncology e hanno dimostrato che l’aggiunta di ibrutinib a bendamustina e rituximab (la chemioimmunoterapia standard) ha permesso di prolungare in modo significativo la sopravvivenza libera da progressione rispetto alla sola chemioimmunoterapia più un placebo, riducendo dell’80% il rischio di progressione e di decesso.

I dati presentati ora al congresso da Asher Alban Chanan-Khan, della Mayo Clinic di Jacksonville, in Florida, dimostrano che questo miglioramento si è ottenuto senza sacrificare la sicurezza. Durante il suo intervento Chanan-Khan ha anche caratterizzato la gestione degli eventi avversi.

Lo studio ha coinvolto 578 pazienti con leucemia linfatica cronica o piccolo linfoma linfocitico, esclusi quelli con la delezione 17p, già sottoposti ad almeno una prima linea di terapia sistemica. Il 38% del campione aveva una malattia in stadio Rai III/IV e i pazienti avevano già fatto una mediana di due terapie.

I partecipanti sono stati trattati con un massimo di sei cicli di bendamustina e rituximab più ibrutinib 420 mg/die oppure un placebo in rapporto 1:1 e l'esposizione è stata rispettivamente di 14,7 mesi e 12,8 mesi.

L’incidenza delle infezioni è risultata simile nei due gruppi, ma l'analisi aggiustata in base all’esposizione ha mostrato un tasso di infezioni complessivo più basso nel gruppo trattato con l’inibitore rispetto al gruppo placebo (10,3/100 mesi-paziente contro 11,2/100 mesi-paziente), e un tasso di infezioni di grado 3 o superiore simile nei due gruppi, ha riferito Chanan-Khan.

L’incidenza dell’anemia di qualsiasi grado è stata del 22,3% nel gruppo ibrutinib contro 28,9% nel gruppo di controllo, mentre quella dell’anemia di grado 3/4 rispettivamente del 3,5% e 8%. I pazienti trattati con l’inibitore hanno richiesto anche un minor numero di trasfusioni, più comunemente trasfusioni di globuli rossi (23% contro 29%), risultato che potrebbe essere stato un riflesso del ripristino del sistema ematopoietico nel gruppo trattato con ibrutinib, ha detto Chanan-Khan .

L’Inoltre, l’incidenza della neutropenia di grado 3/4 è risultata simile nei due gruppi (53,7% e 50,5%), ma nel gruppo trattato con ibrutinib un numero inferiore di pazienti ha interrotto il trattamento a causa della neutropenia correlata al trattamento (1% contro 2,8%).

La trombocitopenia è stata un po’ più frequente tra i pazienti trattati con l’inibitore (30,7% contro 24%), ma quella di grado 3/4 ha avuto un’incidenza del 15% in ciascun gruppo.

La fibrillazione atriale è stata poco frequente, ma è stata osservata più spesso nel gruppo ibrutinib (7,3% contro 2,8%). Solo sette pazienti hanno richiesto un'interruzione della somministrazione - per una durata media di 7 giorni - per gestire questo effetto avverso.

Non sono state necessarie riduzioni del dosaggio, ha detto Chanan-Khan, ma quattro pazienti, tutti nel gruppo ibrutinib e con tutti con fibrillazione atriale di grado ¾, hanno interrotto la terapia a causa dell’effetto collaterale.

Gli autori dello studio hanno analizzato i dati per identificare potenziali fattori di rischio di predisposizione verso la fibrillazione atriale, ma non ne è stato identificato nessuno basale come fattore causale. Tuttavia, la maggior parte dei pazienti che hanno sviluppato fibrillazione atriale aveva un noto fattore di rischio, ha spiegato Chanan-Khan.

Lo specialista ha aggiunto che tra i pazienti con una storia precedente di fibrillazione atriale, quelli che l’hanno sviluppata durante lo studio sono stati il 28% nel braccio ibrutinib e solo il 9% nel braccio di controllo.

Le comorbidità cardiache di base hanno mostrato di non avere alcun effetto sulla sopravvivenza libera da progressione in nessuno dei due gruppi.

"Abbiamo quindi concluso che il rischio di fibrillazione atriale è basso e intorno al 5%, che non influisce sulla sopravvivenza libera da progressione, che una storia precedente di fibrillazione atriale non è una controindicazione, che un'interruzione o una riduzione della dose di ibrutinib non è giustificata e che si dovrebbero trattare i pazienti affetti da LLC innanzitutto per la LLC e solo in seconda battuta si dovrebbe gestire la fibrillazione atriale” ha detto Chanan-Khan.

Un altro fattore importante che spesso influisce sulle decisioni cliniche riguarda l'uso di anticoagulanti o antiaggreganti piastrinici e il rischio di sanguinamento con associato a ibrutinib. A questo riguardo, l’autore ha sottolineato che oltre il 40% dei pazienti nel braccio ibrutinib era in trattamento con tali agenti. Tuttavia, i ricercatori non hanno osservato alcun impatto sui risultati di sopravvivenza libera da progressione in nessuno dei due bracci tra i pazienti che erano anche in trattamento con anticoagulanti o antiaggreganti.

I sanguinamenti hanno avuto una frequenza del 31% nel gruppo ibrutinib e 14,6% nel gruppo placebo, rispettivamente e la maggior parte dei casi ha riguardato lividi e contusioni di grado 1. Solo quattro pazienti hanno interrotto la terapia a causa di un sanguinamento.

I tassi di sanguinamenti maggiori e di emorragie maggiori di grado 3/4 sono risultati bassi in entrambi i gruppi, meno del 4%, e solo due pazienti hanno interrotto la terapia a causa di un sanguinamento maggiore. Due pazienti del braccio ibrutinib sono morti a causa di un sanguinamento maggiore, tra cui uno che aveva un grosso aneurisma dell'aorta addominale preesistente e uno che aveva subito un’estesa perforazione intestinale post-chirurgica.

"Nel complesso, questi dati supportano l'uso di ibrutinib nei pazienti in terapia anticoagulante o antipiastrinica concomitante, mostrano che non vi è un aumento significativo del rischio di sanguinamento con ibrutinib rispetto al placebo e che la maggior parte degli eventi emorragici sono di grado 1" ha detto Chanan-Khan .

Infine, il tasso di linfocitosi correlata al trattamento, un noto effetto farmacodinamico di ibrutinib, è stato del 7% nel gruppo trattato con li’inibitore e 5,9% nel gruppo placebo e la maggior parte dei casi si è risolta entro 2 settimane.

"Considerando il significativo miglioramento della sopravvivenza libera da progressione e della sopravvivenza globale offerto da ibrutinib, si può dire che il farmaco abbia un profilo complessivo rischio-beneficio favorevole" ha concluso Chanan-Khan.