Oncologia ed Ematologia

Nivolumab promettente nel carcinoma epatocellulare avanzato

L'inibitore del checkpoint immunitario PD-1 nivolumab è risultato associato a risposte durature in pazienti con carcinoma epatocellulare avanzato pesantemente pretrattati nello studio di fase I/II CheckMate 040.

L’inibitore del checkpoint immunitario PD-1 nivolumab è risultato associato a risposte durature in pazienti con carcinoma epatocellulare avanzato pesantemente pretrattati nello studio di fase I/II CheckMate 040.

Inoltre, il profilo di sicurezza del farmaco è risultato in linea con quello osservato in altri tumori solidi, gli eventi avversi sono stati gestibili e non sono emersi segnali nuovi relativi alla sicurezza. Lo ha detto Ignacio Melero, della Clinica Universidad de Navarra di Pamplona, in Spagna, presentando i risultati durante il   Gastrointestinal Cancer Symposium dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), svoltosi di recente a San Francisco.

Lo studio ha coinvolto in tutto 262 pazienti con malattia avanzata confermata istologicamente che non potevano essere sottoposti a resezione curativa, tutti pesantemente pretrattati, più frequentemente con sorafenib.

Melero ha spiegato che il carcinoma epatocellulare diagnosticato in fase avanzata ha una prognosi infausta e coloro in cui il tumore progredisce nonostante il trattamento con sorafenib - l'unica opzione di terapia sistemica disponibile per tali pazienti - hanno ben poche opzioni a disposizione.

Nivolumab, che è in grado di ripristinare l'attività antitumorale mediata dalle cellule T, ha già dimostrato di poter offrire un beneficio clinico e migliorare la sopravvivenza in un certo numero di tipi di tumore. Da qui la decisione di testarlo anche nel carcinoma epatocellulare avanzato.

Nella fase I (quella di dose-escalation) dello studio CheckMate 040 si sono valutati dosaggi di nivolumab che andavano da 0,1 a 10 mg/kg somministrati ogni 2 settimane, mentre nella fase II (quella di espansione) si è valutato nivolumab alla dose di 3 mg/kg ogni 2 settimane in quattro coorti diverse di pazienti: naïve/intolleranti a sorafenib; progrediti con sorafenib, infettati dal virus dell'epatite C e infettati dal virus dell'epatite B.

"Data l’infiammazione che spesso interessa il fegato, temevamo molto di far precipitare un’epatite iperacuta o fulminante in questi pazienti, e d è per questo motivo che abbiamo aumentato la dose molto gradualmente" ha detto Melero, aggiungendo che alla luce dei risultati di efficacia e sicurezza ottenuti nella fase di aumento della dose, nella fase II si è estesa a tutti i pazienti, compresi quelli non infetti e quelli con infezione da HCV o HBV la dose pari a 3 mg/kg utilizzata in altri studi clinici.

Per quanto riguarda la sicurezza e la tollerabilità - endpoint primario della fase I - eventi avversi di grado 3/4 correlati al trattamento si sono verificati nel 20% dei pazienti e durante l'incremento della dose non si è raggiunta la dose massima tollerata.

Il motivo più comune di sospensione del trattamento è stato la progressione della malattia; pochissimi pazienti lo ha interrotto a causa di tossicità, ha riferito Melero, sottolineando che "il profilo di sicurezza è risultato molto coerente con quello che è stato riportato in altre indicazioni". Infatti, la maggior parte degli eventi di grado 3/4 sono stati alterazioni dei parametri di laboratorio, prive di ripercussioni cliniche.

Il profilo di sicurezza nella fase II è risultato in linea con quello osservato nella fase I e non è emersa alcuna differenza in termini di sicurezza nelle tre categorie di pazienti con carcinoma epatocellulare arruolate nello studio.

Per quanto riguarda la risposta obiettiva - endpoint primario della fase II – le percentuali valutate dagli sperimentatori sono risultate del 16,2% nella fase I e 18,6% nella fase II, mentre quelle stimate da una revisione centralizzata indipendente in cieco sono risultate  rispettivamente del 18,9% e 14,5%.

La durata mediana della risposta è stata di 17,1 mesi nella fase I e non era ancora stata raggiunta nella fase II, ha detto Melero, aggiungendo che nel gruppo dei non infetti, un "numero importante di pazienti ha sviluppato una malattia stabile duratura", ma questo si è osservato anche nei pazienti con epatite cronica.

"Crediamo che la stabilizzazione della malattia sia un driver di sopravvivenza, perché nella fase I abbiamo visto che il 45% dei pazienti era vivo a 18 mesi dall'inizio del trattamento e il 71% era vivo dopo 9 mesi.

Da notare che le percentuali di risposta obiettiva sono risultate simili nei pazienti trattati con sorafenib e in coloro che hanno ricevuto nivolumab come trattamento di prima linea, e simili a prescindere dall’espressione del ligando di PD-1, PD-L1.

La qualità della vita, valutata dai pazienti con il questionario EQ-5D, è rimasta stabile nel tempo.

"Nivolumab ha portato a ottenere risposte obiettive e una sopravvivenza a lungo termine sia nei pazienti già trattati con sorafenib sia in quelli naïve. Utilizzato in monoterapia ha portato a risposte rapide, stabili e durature, l'efficacia si è osservata indipendentemente dalla presenza o meno di un’infezione virale cronica da virus dell'epatite e le risposte si sono osservate anche nei pazienti risultati PD-L1-negativi dopo le biopsie “ ha concluso Melero.

L’oncologo ha anche anticipato che è già in corso uno studio randomizzato di fase III in cui si sta confrontato nivolumab con sorafenib.

I. Melero, et al. Nivolumab dose escalation and expansion in patients with advanced hepatocellular carcinoma (HCC): The CheckMate 040 study. J Clin Oncol 35, 2017 (suppl 4S; abstract 226)
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