Uomo, con un’artrite psoriasica diagnosticata precocemente e un trattamento adeguato fin dall’esordio: questo l’identikit del paziente che con più facilità raggiungerà dopo 5 anni la minima attività di malattia o la remissione.

Le donne, invece, raggiungono una bassa attività di malattia o la remissione con più difficoltà. Per raggiungere questo obiettivo terapeutico è maggiormente importante diagnosticare subito la malattia ed effettuare un trattamento iniziale più aggressivo, in particolare quando le pazienti manifestano un impegno poliarticolare.

Queste le principali conclusioni cui è giunto il gruppo di sperimentatori svedesi che ha partecipato ala compilazione dello Swedish Early Psoriatic Arthritis Register (SwePsA). Questo registro, attivo dal 1999, ha permesso di individuare potenziali fattori in grado di predire esiti clinici di malattia favorevoli dopo 5 anni dai follow up.

I risultati dello studio sono stati oggetto di una recente pubblicazione su Annals of the Rheumatic Diseases. Un lavoro interessante per il fatto di essere il primo studio osservazionale nell’artrite psoriasica a valutare in maniera longitudinale gli outcome clinici della remissione e della minima attività di malattia.

Sei i centri attivati, per un totale di 363 pazienti con AP, i cui sintomi si erano manifestati da meno di due anni. I 197 pazienti inclusi nell’analisi avevano inoltre superato i 5 anni di follow up.
L’outcome primario dello studio era la Minimal Disease Activity (MDA), raggiunta dal paziente quando non aveva articolazioni dolenti e tumefatte o ne aveva al massimo una, aveva una velocità di eritrosedimentazione (VES) < 20 mm e una proteina C reattiva (PCR) < 0,5 mg/dl.

La remissione richiedeva invece anche l’assenza di segni e sintomi di entesite assiale a di bassi livelli di dolore articolare o a carico della colonna.

Altre variabili misurate erano il Disease Activity Score (DAS28) ed il Disease Activity Index for Psoriatic Arthritis (DAPSA).
Gli uomini erano più giovani delle donne (43 vs 48 anni) e con una minore attività di malattia, sia al baseline (3,0 vs 3,7) che al follow up (2,1 vs 2,8). Risultati analoghi sono stati ottenuti anche per il DAPSA e per le variazioni di DAS28 e DAPSA rispetto al baseline.

Il dato maggiormente interessante è che gli uomini inclusi nello studio raggiungevano la minima attività di malattia con più frequenza rispetto alle donne (50 vs 33%). Stessa cosa vale per la remissione (25% vs 13%).

Inoltre le donne mostravano con più frequenza una poliartrite rispetto agli uomini, sia all’inclusione nello studio (49% vs 27%) che dopo 5 anni (25% vs 15%). Al contrario, l’artrite assiale o mono/oligoarticolare prevaleva negli uomini.

I fattori in grado di predire una minima attività di malattia al 5° anno di follow up erano una minore durata dei sintomi al momento della diagnosi, un maggior benessere generale e una scarsa qualità della vita, come mostrato dai punteggi dell’Health Assessment Questionnaire (HAQ).

“Un importante messaggio del nostro studio è che nelle donne [la malattia] si presenta e progredisce in maniera più severa. Non ci sorprende che gli uomini abbiano più spesso una malattia assiale, fattore predittivo di minima attività di malattia all’analisi univariata”, precisano il dott. Theander, reumatologo alla Lund University, ed i colleghi svedesi.
“Le donne hanno un’attività di malattia più elevata, più dolore articolare e inabilità funzionale. Esse presentano più spesso una malattia poliarticolare persistente.”, aggiungono gli autori, e continuano affermando che “l’elevata e persistente attività di malattia nelle donne era prevalentemente dovuta alla mancanza di un miglioramento della conta delle articolazioni dolenti e non ad alti livelli persistenti di dolore generale (VAS) o alla mancanza di un benessere globale.”

Questo fa dunque supporre che nelle donne l’attività di malattia persistente non fosse causata da una comorbidità fibromialgica.
Un altro risultato importante di questo studio è l’effetto del ritardo dell’inizio della cura e di un controllo efficace della malattia all’esordio. Infatti, la più breve durata dei sintomi prima dell’inclusione nello studio era risultata un fattore predittivo indipendente di migliore outcome sia negli uomini che nelle donne.

“Questo risultato enfatizza la necessità di strategie volte al riconoscimento precoce e all’indirizzare i pazienti con AP verso un’unità reumatologica”, affermano gli sperimentatori.
Gli autori concludono quindi ribadendo la necessità di prestare una maggiore attenzione nei confronti delle donne con AP che presentano un impegno poliarticolare, perché potrebbero necessitare fin dall’esordio della malattia di un trattamento più aggressivo.

Ad oggi, infatti, la buona pratica clinica del treat-to-target è divenuta di uso comune nel trattamento dell’artrite reumatoide ma, probabilmente, non è ancora una pratica così diffusa nel trattamento dell’artrite psoriasica.
Questo studio, basato su un registro nazionale, non è certamente sufficiente per la stesura di linee guida per l’artrite psoriasica, ma rappresenta un punto di partenza per la conduzione di studi di maggiore portata, volti alla creazione di linee guida per l’applicazione del treat-to-target anche nell’artrite psoriasica e nelle spondiloartriti in generale.

Francesca Sernissi

Riferimento
Theander E, Husmark T, Alenius GM, Larsson PT, Teleman A, Geijer M, Lindqvist UR. Early psoriatic arthritis: short symptom duration, male gender and preserved physical functioning at presentation predict favourable outcome at 5-year follow-up. Results from the Swedish Early Psoriatic Arthritis Register (SwePsA). Ann Rheum Dis. 2014 Feb;73(2):407-13.