Un rapporto a due facce quello tra Covid-19 e BPCO, broncopneumopatia cronica ostruttiva. Da un lato la risposta all’infezione è più complicata e con conseguenze più severe, dall’altro lato le persone con BPCO che si sono infettate sembrano siano state meno del previsto, tanto da ipotizzare una forma di protezione forse dovuta alla terapia anti-BPCO in atto. Sono alcune delle indicazioni emerse durante l’incontro “BPCO, quale malattia dopo il Covid-19 e quali terapie” organizzato da Gsk.

È indubbio che le persone fragili e con patologie abbiano avuto una risposta peggiore all’infezione da Covid-19. L’apparato respiratorio è il principale bersaglio, lo strumento di diffusione e trasmissione del Covid-19, causato dal virus SARS-CoV-2. Pur determinando una polmonite di tipo interstiziale, quindi senza attaccare direttamente gli alveoli dove avvengono gli scambi tra aria e sangue, il virus può avere un impatto pesantissimo sulla salute di chi fa i conti con questa malattia respiratoria cronica.

Una ricerca condotta in Cina sulle comorbilità di 1590 pazienti COVID-19 dimostra che i casi severi presentano più probabilità di avere la BPCO rispetto a quelli meno gravi (62.5% vs 15.6%). Inoltre un numero significativamente maggiore di pazienti con BPCO è andato incontro a ricovero in terapia intensiva, a ventilazione invasiva o a decesso rispetto ai malati senza BPCO (50% vs. 7.6%). In Italia, in base ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità sulle patologie preesistenti, in 3335 soggetti sul totale dei 32.448 deceduti, la BPCO era presente nel 16.6% del campione (dati al 4 giugno).

«L’apparato respiratorio rappresenta un target fondamentale quando si parla di Covid-19 e di persone con BPCO» conferma Francesco Blasi, Ordinario di Malattie dell’Apparato Respiratorio all’Università degli Studi di Milano. «Una seconda ricerca condotta in Cina (Leung JM et al. ERJ 2020) evidenzia come il fumo attivo e la BPCO alterino la regolazione dell’espressione del recettore  ACE-2, “canale di ingresso” del virus SARS-CoV-2 nelle basse vie aeree, che può in parte spiegare l’aumentato rischio di forme Covid-19 gravi in queste popolazioni. I risultati sottolineano l’importanza prima di tutto di smettere di fumare e di un’aumentata sorveglianza di questi sottogruppi a rischio per la prevenzione e la diagnosi tempestiva di questa patologia potenzialmente dannosa”.

Anche le linee guida Gold riconoscono che le persone con BPCO presentano i quadri clinici più gravi tra quelle colpite da Covid-19, incoraggiandole a seguire i consigli degli organi di salute pubblica dei rispettivi Paesi per cercare di ridurre al minimo le possibilità di infezione e su quando e come chiedere aiuto qualora si mostrino i sintomi dell’infezione (https://goldcopd.org/gold-covid-19-guidance/ ).
La raccomandazione principale è però quella di mantenere la loro regolare terapia per la BPCO, anche perché durante l’incontro si è sottolineato come il numero di persone con BPCO infette da Covid-19 sia stato inferiore alle previsioni.

«A fronte di una maggiore severità dell’infezione da Covid-19 nelle persone affette da BPCO abbiamo osservato una bassa prevalenza di malati affetti da questa patologia respiratoria nel ricoverati per Covid-19» conferma Blasi. «I pazienti con BPCO, ma anche quelli affetti da asma, sono stati meno del previsto. Dobbiamo ancora analizzare i dati relativi ai 1200 pazienti post-Covid  ricoverati nel nostro ospedale e verificare nel follow-up i motivi, ma le prime ipotesi potrebbero essere il rigido isolamento mantenuto dai pazienti con BPCO per timore del virus ma anche un possibile effetto protettivo svolto dalle terapie per la BPCO».

Tre il numero perfetto
L’infezione da Covid-19 avrebbe potuto quindi avere avuto il positivo effetto collaterale di aver migliorato l’aderenza alle terapie per BPCO. «L’auspicio è che i pazienti proseguano con questo comportamento virtuoso, perché i dati pre-Covid erano sconfortanti, con un utilizzo delle terapie attorno al 14 per cento» commenta Blasi. Per una maggiore compliance del paziente è comunque essenziale il ruolo del medico. «Il rapporto medico-paziente è essenziale» conferma Girolamo Pelaia, direttore della Clinica Pneumologica Universitaria e della Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Respiratorio dell’Università degli Studi di Catanzaro. «La cronicità della malattia, che determina l’assunzione continua della terapia, e le fasi asintomatiche possono spingere il paziente ad abbandonare il trattamento. In più i possibili problemi di comprensione nell’utilizzo dell’erogatore, soprattutto nelle persone anziane, contribuiscono alla mancata aderenza. Per questi motivi il medico non può limitarsi a prescrivere il farmaco, ma deve prevedere un colloquio approfondito e personale».

Il rapporto medico-paziente è importante anche perché la BPCO è una malattia complessa ed eterogenea: complessa perché presenta diverse componenti con interazioni dinamiche non lineari, eterogenea perché non tutte queste componenti sono presenti in tutti i pazienti o nello stesso paziente in tutte le fasi della malattia. Questa complessità spiega e giustifica la necessità di un approccio focalizzato a migliorare la valutazione, il trattamento e gli esiti. I singoli pazienti possono aver bisogno di approcci di trattamento differenti nei diversi stadi della malattia.

«Per la BPCO non si può ancora parlare di terapia personalizzata, anche se oggi conosciamo diversi sottotipi della malattia» spiega Blasi. «L’introduzione di farmaci biologici non è ancora al livello di altre branche della medicina, come l’oncologia, anche se per quanto riguarda la pneumologia qualche novità è stata introdotta nel trattamento dell’asma. Più che una personalizzazione, quindi, abbiamo raggiunto una buona ottimizzazione della terapia: eliminazione del fumo di sigaretta, ossigenoterapia e soprattutto la disponibilità di nuovi trattamenti, come la triplice terapia, hanno decisamente migliorato la gestione del paziente con BPCO».

L’importante, dunque, e non solo per i rischi legati al virus, è studiare per ogni paziente il trattamento più efficace. Se nelle forme meno gravi, caratterizzate da un limitato rischio di esacerbazioni, cioè di aggravamenti acuti della cronicità, l’associazione di due farmaci ad azione antinfiammatoria e broncodilatatrice può essere sufficiente, nei pazienti che presentano più esacerbazioni appare fondamentale il trattamento di partenza con tre farmaci associati. Grazie a questo approccio, come  conferma lo studio IMPACT, si può ridurre il rischio di morte per tutte le cause: l’organismo infatti ha bisogno di ossigeno e se questo non è disponibile, come nel caso delle forme più serie, sono a rischio anche il cuore, l’albero circolatorio e altri distretti.

Le ultime analisi post hoc dell’IMPACT ci dicono infatti che l’associazione precostituita tra di fluticasone furoato/umeclidinio/vilanterolo riduce significativamente, nella misura del 28%, il rischio di decesso per tutte le cause in questi pazienti rispetto all’associazione precostituita di due broncodilatatori.

«Lo studio IMPACT rappresenta una pietra miliare, perché è il primo trial che documenta come la triplice terapia sia quella che riduce maggiormente la mortalità per causa cardiovascolare,  respiratoria e correlata alla BPCO» commenta Pelaia.
«L’ipotesi più probabile e consistente è che tale rilevante effetto sulla riduzione della mortalità derivi principalmente dall’efficacia della triplice terapia, nel diminuire le riacutizzazioni soprattutto severe, quelle cioè che richiedono ospedalizzazione: nello studio IMPACT il rischio di esacerbazioni che portano a ospedalizzazione è ridotto del 34% sempre rispetto alla terapia a due farmaci broncodilatatori. E’ importante rilevare che i vantaggi della triterapia sono indipendenti dal rischio di esacerbazioni:  una sottoanalisi effettuata per valutare l’impatto della storia di riacutizzazioni dei pazienti dell’IMPACT sugli outcome clinici indica chiaramente che la triplice terapia fluticasone furoato/umeclidinio/vilanterolo è più efficace di entrambe le duplici terapie fluticasone furoato/vilanterolo e umeclidinio/vilanterolo nel prevenire le riacutizzazioni e nel migliorare lo stato di salute e la funzionalità respiratoria indipendentente dalla storia di riacutizzazione, in modo quindi consistente  con l’analisi condotta sulla popolazione complessiva».

Attenzione alle riacutizzazioni
La cronicità della BPCO mina nel tempo la qualità di vita dei pazienti, gradualmente compromessa dal persistere dei sintomi, ma il secondo aspetto della patologia riguarda la sua progressione e la comparsa di riacutizzazioni, fenomeni che colpiscono circa il 30% dei malati.

«La mancata risoluzione della sintomatologia, unita alla bassa aderenza e alla comparsa di riacutizzazioni, porta nel tempo i pazienti ad adottare un incremento della terapia» avverte Blasi. «Lo studio IMPACT dimostra chiaramente che grazie alla triplice terapia già in prima linea si può ottenere una riduzione del rischio di morte in questi malati». Un altro aspetto importante dello studio Impact riguarda all’arruolamento di un alto numero di pazienti, molti dei quali con condizioni che ne avevano determinato l’esclusione in altri trial. «Il disegno dello studio ha avuto il merito di avvicinare le caratteristiche dei pazienti studiati a quanto si riscontra nella real life» commenta Pelaia.

«I risultati osservati nelle diverse analisi condotte sulla mortalità per tutte le cause sono consistenti tra loro e vanno tutti nella stessa direzione: la triplice terapia fluticasone furoato/umeclidinio/vilanterolo migliora la qualità di vita, la funzione polmonare  e riduce le riacutizzazioni moderate/gravi. Non dovremmo quindi sorprenderci di fronte ai dati di riduzione della mortalità, soprattutto tenendo conto del ruolo dei fattori di rischio per la mortalità nei pazienti con co-morbilità in generale e con BPCO in particolare. La conta degli eosinofili nel sangue può essere di supporto nel discriminare i diversi effetti del trattamenti nei pazienti con il rischio maggiore di riacutizzazioni (≥2 moderate o almeno 1 severa), mentre ha meno impatto nel gruppo con una sola riacutizzazione moderata. Questi risultati sono rilevanti nella pratica clinica, in quanto un più elevato rischio di riacutizzazioni (basato sulla storia precedente) e una maggiore conta di eosinofili ematici supportando l’utilizzo della triplice terapia rispetto a umeclidinio/vilanterolo. Nell’attesa di ulteriori acquisizioni per comprendere il ruolo di questi marcatori, oggi possiamo offrire ai pazienti con BPCO frequenti riacutizzatori un trattamento che consente loro di vivere meglio e più a lungo. In conclusione con la triplice terapia i pazienti stanno meglio. Lo confermano gli stessi pazienti e i clinici, e  anche se queste affermazioni non hanno il rigore scientifico degli studi, la percezione empirica è importante per incoraggiarci a estendere l’utilizzo della triplice terapia a un maggior numero pazienti».

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